Karl Marx, il parassita che ha imposto la Scolastica del ’900, presentato agli studenti come una sineddoche, cioè come il nome di un’intera tradizione onnipervasiva. La sua, in realtà, fu una tristissima vita da agitatore politico, vissuta alle spalle del facoltoso Engels
Ci sono cose che sai di non sapere ma ce ne sono altre che non sai di sapere. Nell’ottobre scorso è uscito un libro che spiega perché siamo tutti (o quasi) convinti che, ad esempio, la rivoluzione industriale sia stata solo una lunga catena di montaggio e di sfruttamento; che le scoperte del Nuovo Mondo furono solo una strage consapevole del buon selvaggio; che natura e ambiente siano compromesse a causa del famelico essere umano che può perfino decidere la temperatura della Terra. E così via. Stiamo parlando di “A scuola di declino. La mentalità anti capitalista nei manuali scolastici” (LiberiLibri), scritto da tre docenti, Andrea Atzeni, Marco Lottieri e Luigi Marco Bassani. Meno di 150 pagine per un’agile lettura di un fenomeno perdurante da oltre un cinquantennio: il morbo del marxismo, penetrato nel cervello di generazioni adattandosi come un retrovirus a ogni fase della storia senza modificare il prodotto di chi legge il mondo secondo la tipica dualità concettuale tra “oppressi” e “oppressori”, schema base del celebre ebreo di Treviri. Un marxismo indotto a nostra insaputa, a cominciare dai libri scolastici. Gli autori ne hanno scandagliato la gran parte e, senza citarli, hanno rilevato il disegno comune, più spontaneo di quanto si creda, di magnificare un unico punto di vista, quello marxista.
Un guaio che gli ortodossi – e pure i simpatizzanti – del ramo liquideranno con la rituale alzata di spalle pensando, nella migliore delle ipotesi, che “il problema è più complesso”. Intanto, a quanti sono stati studenti sin dagli anni Sessanta almeno, non è stato risparmiato nulla di questa gigantesca suggestione. Nel libro si rileva, tanto per cominciare, la costante minimizzazione degli orrori comunisti: “I fascisti hanno dovuto fare i conti con la storia. I comunisti, diciamo, si sono fatti degli sconti”. Chi non ha, poi, sentito la fola del “neo-liberismo”, sempre “selvaggio”, quale causa d’ogni male? Pensare all’Italia parlando di “liberismo selvaggio” costringe alla risata. Se per Marx lo stato è un “comitato d’affari della borghesia”, per i marxisti che hanno curato i manuali lo stato è sinonimo di progresso, con la conseguenza che il diritto pubblico sarà ciò che regolerà le intere relazioni umane, praticamente una distopia. Anche l’idea della povertà, istintivamente percepita come il risultato di condotte altrui pure da chi non è marxista, è frutto di cattivi maestri. Lo ribadisce il libro quando precisa che nella storia dell’umanità è la povertà la regola, non la ricchezza. Lo studioso Tom Palmer dà la formula giusta: “La ricchezza ha cause, la povertà no; ma la povertà è ciò che consegue se la produzione di ricchezza non ha luogo, mentre la ricchezza non è ciò che consegue se la produzione di povertà non ha luogo”. Nei manuali non trovi mai ciò che è un dato di verità, cioè che il capitalismo è stato l’unico progresso che abbia realisticamente offerto la speranza di “dimenticare la povertà”. In Italia queste cose le risolviamo direttamente per decreto legge.
Leggiamo che “nelle prime fabbriche esistevano turni estenuanti e ricatti sessuali per le donne, deformazioni e malattie per i bambini, tutti pagati con salari da fame”, ma senza mai spiegare perché vi accorressero milioni di persone visto che non esistevano bande armate di reclutamento di manodopera sottratta a quella che Marx stesso definitiva “l’idiozia della vita di campagna”. C’è, però, da essere ottimisti perché nasce la nuova speranza: il socialismo e un vasto movimento popolare e operaio. Una cosa buona in sé, a prescindere. Fino a circa 50 anni fa il tema era “lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo”, ma dagli anni 80 si fa strada l’accusa di distruggere le risorse del pianeta e, più recentemente, di creare tali disuguaglianze tra la popolazione degli stessi paesi avanzati da essere diventato un fattore di de-civilizzazione. Per ragioni di sintesi, non indugiamo nell’abisso surreale di tutte le politiche “di genere”. Pino Acocella, emerito di Filosofia del diritto alla Federico II, al Foglio dice: “Sottoporre alla politica ogni tipo di interpretazione dei fatti storici e del pensiero, mi è parso il più grave danno del marxismo alla scuola. Una volta entrato in crisi, ha seguito una sorta di radicalismo piccolo-borghese, perdendo ogni contatto con la classe operaia: vale per la scuola come per il sindacato, e oggi lo vediamo bene”. Dello stesso avviso Andrea Manzi, giornalista, scrittore e docente universitario: “Dalla sconfitta ideologica del marxismo è scaturito un recupero, in mille disarticolate schegge disciplinari, dei suoi assunti originari, che continuano a penetrare da decenni nei libri di testo. Un tentativo stravagante, una grave insidia per la dialettica stessa”.
Marx, insomma, viene presentato agli studenti come una sineddoche, cioè come il nome di una intera tradizione onnipervasiva, un solo canone e nessuna deviazione come fosse la Scolastica del ’900. La sua, in verità, fu una “tristissima vita da agitatore politico, vissuta alle spalle del facoltoso Engels e del plusvalore prodotto dallo sfruttamento dei suoi operai, con tanto di figlio avuto dalla cameriera e spedito dalla suocera, tutto viene presentato come pura mitopoiesi, capace di gettare lumi sul mondo produttivo e sulla scienza”. Marx viveva da parassita (“non sono comunista, non me lo posso permettere”, chiarirà poi Flaiano), mantenuto da Engels ma questo i testi non lo dicono mai e di certo non viveva in povertà visto che Engels gli pagava segretari e domestiche. Si obietterà: e allora? dopo il 1989 le cose sono cambiate con la caduta del Muro. Macché. Come per le posizioni à la Canfora, quelle del “rivendicare tutto” pure dinanzi alle macerie, servirebbe forse l’altro grande mito novecentesco per spiegarselo, quel Freud familiare pure in salumeria. Ma il Flaiano appena citato è più efficace.