Il mutuo scambio delle parole è necessario per la sopravvivenza, ma l’invasione linguistica angloamericana procede spedita. Un nuovo libro mette insieme un’utile e divertente storia di questo fenomeno, insieme ai tentativi messi in pratica per arginarli o combatterli
La nostalgia per quella breve parentesi draghiana è ancora in noi, e non solo per l’economia. “Chissà perché dobbiamo usare tutte queste parole inglesi”, disse l’ex premier nel 2021 al centro vaccinazioni di Fiumicino, dopo essersi trovato nel discorso parole come smart working e baby sitting. Lui riusciva a dire una cosa saggia senza apparire come un sovranista incavolato o come qualcuno, tipo Diego Fusaro, che per darsi un tono chiama Marx “Carlo”, o senza cadere nella parodia del “liceo del made in Italy” che pare una manovra satirica fatta da un MinCulPop guzzantiano. La critica draghiana alla lingua va avanti da molto tempo, come ci ricorda Maurizio Trifone nel suo Itanglese. Storie di parole da abstract a wine bar, appena uscito per Carocci. Già Leopardi diceva che la lingua diventa una “stalla d’Augia – cioè piena di letame – a forza di stranierismi”. E poi Bianciardi, ma anche Primo Levi, che scrive: “La battaglia del purista è una disperata battaglia di retroguardia: tale è oggi davanti all’avanzare dell’itangliano”.
Il mutuo scambio delle parole è più che normale, è necessario per la sopravvivenza, ma l’invasione linguistica angloamericana procede spedita, complici internet e le serie, o forse la finanza (ma già nel ’700 bistecca veniva da beef-steak, per dire). Nel libro Trifone mette insieme un’utile e divertente storia degli anglismi e dei tentativi di arginarli o combatterli – come Arrigo Castellani che contro il morbus anglicus propone computiere per computer, nocchiero per skipper o velopattino per windsurf, – ma è soprattutto una storia di alcune parole arrivate dalla perfida Albione o dagli yankee e penetrate nella penisola e nei nostri discorsi quotidiani. Quasi un dizionario ragionato che permette di vedere, tramite la lingua, influenze culturali e modifiche sociali di termini a volte intraducibili, altre volte superflui, o che, con una leggera sfumatura, ne variano vagamente il significato.
Tutto compreso che diventa all inclusive, dopobarba che diventa aftershave, e poi termini più tecnici come quantitative easing, o parole che, per quanto facilmente traducibili, in virtù del loro esotismo anglosassone e della loro contemporaneità semantica diventano uniche, tipo selfie o spam, e necessarie in certi ambiti, tipo road map o spread. Basta origliare dieci minuti una qualsiasi riunione milanese – che sia moda, design, finanza – o anche fare un aperitivo durante una qualche week, per fare un corso accelerato, un Duolingo di itanglese in un bar di Nolo o da Accenture. C’è differenza tra un paio di sneaker e delle scarpe da ginnastica? Forse se le devi sponsorizzare su Instagram sì. Underdog è più attraente di sfavorito o “sottocane”? Anti-age vende di più di anti-età? Dress code è meno invadente di “ti devi vestire bene?”.
Tra gli spunti che vengono fuori dal libro di Trifone c’è la grande responsabilità della stampa – e della comunicazione e della pubblicità, pensiamo al terribile Very Bello dell’Expo – nella condivisione di questa quasi nuova lingua, di queste incursioni barbare. “Cannes: tutti i look delle star sul red carpet”, titolano le riviste, forse per questione di spazi. Oppure “accusato di revenge porn” – perché pornovendetta sembra il titolo di un film di serie B. E ancora, coming out, competitors, convention e countdown, nickname e mobbing, e-learning e homepage. Come scrive Trifone “l’importante è conoscere le varie opzioni lessicali e i loro precisi valori semantici”, e poi, quando si diventa speechwriter di Draghi evitare di infilargli i forestierismi nello speech.