Una raccolta di racconti che suonano singolarmente credibili, veri, giusti. Tra la sopraffazione subìta o avvertita come imminente, e una perdita umiliante della verginità, tracciando con rapidi microritratti il tema del disagio
Chi legge troppa letteratura contemporanea rischia di assuefarsi alla mediocrità, e così finisce per trovare buono ciò che è appena passabile. Soprattutto, dimentica cos’è il piacere della lettura. Si è quindi particolarmente grati ai pochi libri che ce lo restituiscono intatto. E’ il caso di “Inverness”, una raccolta di racconti che suonano singolarmente credibili, veri, giusti, firmata da Monica Pareschi e pubblicata da Polidoro. Tra le nostre migliori traduttrici dall’inglese, Pareschi ha uno sguardo cui riesce impossibile non fissarsi sulle minime, imbarazzanti sgradevolezze della fisiologia umana: follicoli, sebo, umori. Non stupisce dunque che questo sguardo venga ipnotizzato dal sesso e dal cibo, dagli animali e dai malati. Ma i temi dominanti dei racconti, che dal primo breve all’ultimo lungo descrivono anche il passaggio dalla prosa d’arte a una narrazione ariosa, sono la sopraffazione subìta o avvertita come imminente, e una perdita umiliante della verginità.
All’inizio il dettaglio osceno e comico-grottesco è il fenomeno del bacio, “morso ipocrita”: “La bocca era la porta dello stomaco, le viscere che sboccano all’esterno: baciare profondamente qualcuno, leccare le sue mucose, era come cibarsi dei suoi intestini”. Un altro bacio traumatico dà il titolo al bellissimo racconto scolastico che rappresenta la metamorfosi di un bullismo tra bambine nella pubertà di un eros senza nome, e insieme il contrasto tra l’esistenza disordinata di un ceto marginale e l’immobilismo diligente della piccola borghesia, che a forza di accumulare crediti e tacere sugli affetti fa scomparire l’amore nell’abitudine. A sua volta, questo racconto riecheggia poi nell’ultimo, dove un altro duetto femminile di Ragazza Paurosa e Ragazza Temeraria attraversa gli anni delle manifestazioni tardonovecentesche, dell’autodistruttività e degli autostop, finché la Paurosa è scaricata dalla Temeraria che la giudica un vampiro passivo e subdolo, e mentre si sente riversare addosso dall’amica un disgusto inseparabile dal desiderio pensa che in fondo è “riposante essere riconosciuta”.
Ovunque, nelle trame di Pareschi, l’amore come accettazione malinconica dell’altro si mescola all’amore cannibale che fa tutt’uno con l’invidia e l’odio – e magari con la morte, come nel secondo racconto in cui una bambina gioca in un’aia nel vuoto dei pomeriggi sonnolenti, accanto alla casa di campagna dove il tanfo dei nonni sale da “sotto lo strato di borotalco e di colonia”, e v’incontra il destino che darà forma a tutta la sua vita successiva. Ma è in “Fiori” e in “I gabbiani” che l’autrice si rivela maestra, oltre che nel tracciare rapidi microritratti, nell’affrontare un tema spesso eluso, per difetto o per eccesso, nella rappresentazione dei rapporti intimi: il semplice disagio.
Il disagio provocato, per esempio, dalla depressione, dalla ripetitività e dai segni di una decrepitezza ormai prossima, che negli appuntamenti della mezza età rischiano di far sfumare l’euforia necessaria al sesso; oppure quello inflitto da un seduttore che prima, con modi appena un po’ pressanti ma impeccabili, invita fuori una cinquantenne, e poi deride il suo autunno erotico rivelandosi stonato e insultante come i gabbiani che s’impossessano delle città: e qui Pareschi mostra di saper reggere senza ridondanze anche le allegorie spiegate. In certe pagine, dove gli animali razzolano torbidi vicino ai loro torbidi padroni, sembra di sentire il passo di Flanery O’Connor; in altre, più urbane e più domestiche, si ritrova il gusto per i piccoli demoni repellenti che affollano le raccolte di Antonio Debenedetti. E certi momenti dilatati, che poi si dimostrano appena il simbolo di una lunga durata bruscamente riassunta nei finali, ricordano perfino Alice Munro.