Due saggi sull’intreccio fra sport, politica e potere: “Il potere della vittoria. Dagli agoni omerici agli sport globali” di Moris Gasparri e “Politica e sport. Il corpo nelle ideologie politiche dell’Ottocento e del Novecento” di John M. Hoberman
In questo momento di trumpismo d’assalto che, naturalmente, ha anche le sue implicazioni sportive, credo sia particolarmente interessante leggere un paio di saggi sull’intreccio fra sport, politica e potere. Ne scelgo due: uno molto recente e uno molto datato, uno godibile per il linguaggio “pop” e per i continui riferimenti alla contemporaneità, l’altro che richiede un’applicazione un po’ più sistematica, ma entrambi con un valore storico rigoroso e consolidato. Il primo è il saggio di Moris Gasparri, “Il potere della vittoria. Dagli agoni omerici agli sport globali” (Salerno editore, 2021). Gasparri, editorialista presente spesso su queste pagine, è anche l’amico con cui da più di un decennio mi diletto a preparare la classifica dicembrina che compare, dal 2019, sul Foglio Sportivo e che raccoglie i cento sport thinkers dell’anno. Non ho mai potuto inserire Gasparri in quella classifica per evidente conflitto di interesse, pur meritandolo, essendo uno dei più brillanti ricercatori, pensatori e saggisti che si occupano di storia dello sport e del suo rapporto con la politica e il potere. Lo recupero allora qui, spregiudicatamente di parte, con un’opera a cui ha dedicato anni di studi e che dovrebbe leggere chiunque voglia capire perché Ulisse e i gladiatori possano essere considerati a tutti gli effetti atleti, che cosa c’entri l’agone omerico con il mondo di oggi, perché il medagliere olimpico sia un indicatore dei rapporti geopolitici del pianeta, perché l’università di Stanford abbia un programma così focalizzato sullo sport da aver vinto, con i suoi studenti-atleti, una sola medaglia in meno dell’Italia ai Giochi Olimpici di Parigi, perché invece l’India sotto ai cinque cerchi sia un vero disastro e tanto altro.
Lettura un po’ più complessa, ma altrettanto interessante, è quella del saggio di John M. Hoberman, “Politica e sport. Il corpo nelle ideologie politiche dell’Ottocento e del Novecento” (Il Mulino, 1988). L’autore esplora il modo in cui i regimi politici, dalle dittature ai governi democratici, hanno utilizzato lo sport come strumento di propaganda e controllo sociale e lo fa con il necessario rigore accademico che serve a collegare l’ideologia politica alla costruzione dell’atleta moderno, mostrando come le società abbiano modellato il corpo stesso degli sportivi per rispondere a esigenze simboliche e culturali. Inoltre, Hoberman denuncia il cinismo di alcune istituzioni sportive, che si presentano come neutrali mentre stringono alleanze con poteri economici e politici. Cinismo che può ovviamente essere simmetrico, ovvero da parte del potere nei confronti delle istituzioni sportive, come quello che traspare da un fatto che ha entusiasmato molti, ma non me, rispetto alla possibile “diplomazia dell’hockey” oggetto della recente telefonata fra Putin e Trump. Sì, certo, lo sport può essere strumento di soft power e di diplomazia, anzi ce lo augureremmo tutti. Però quel valore lo sport ce l’ha quando decide di utilizzarlo per propria vocazione, non quando costretto da qualche potente di turno. Altrimenti più che soft power, si tratta di sport washing. Lo abbiamo visto e lo vediamo ripetutamente nel calcio; non vorremmo che, in questo caso, venisse lavato, anzi congelato, su una pista di ice hockey il sangue di un’aggressione militare.