Da Washington a Mosca. Non solo Bannon e Dugin. Ecco gli estremisti che sussurrano alle orecchie dei boss i piani per un inquietante ordine mondiale
Chi gliele dà tutte queste idee strampalate a Trump e a Putin? Sappiamo qualcosa di Elon Musk e di Steve Bannon. Che per altro si odiano a morte, si chiamano l’un l’altro geni del male, e stanno tirando per la giacca il loro presidente in direzioni opposte. Ma chi ha sentito parlare di un tale Curtis Guy Yarvin, un blogger americano assurto a notorietà continentale nel web con lo pseudonimo di Mencius Moldbug?
Si dice che sia lui il principale ispiratore dell’odio feroce, viscerale, per la democrazia e per l’Europa che ci ha colti di sorpresa alla prima uscita sul nostro continente del vice di Trump, J.D. Vance. E’ sempre lui l’ispiratore della “soluzione finale” per l’Ucraina su cui stanno trattando Trump e Putin. Nel 2022, poco prima dell’invasione, aveva pubblicato un testo che dice tutto già nel titolo: A New Foreign Policy for Europe: Give Russia a Free Hand on the Continent, dare mano libera alla Russia sul continente. Vale la pena di citarlo estesamente. “Oggi il destino della Russia è ristabilire l’ordine in Europa. Ma siccome l’America è più forte della Russia, Trump [che non era ancora stato rieletto presidente] deve davvero far sapere a Putin che è accettabile che lo faccia”. Ecco il suo piano, disarmante per il semplicismo fuori dai denti: gli Stati Uniti dovrebbero lasciare che la Russia faccia quel che le pare in Europa. L’Europa si trasformerebbe così in laboratorio di un futuro trumpiano. Per la precisione, in “laboratorio della reazione”.
“Una volta che Putin abbia carta bianca sul continente, ciascuna delle vecchie nazioni europee avrà una mano [anzi una zampa d’orso, a helping bear-paw, sic!] per restaurare la propria cultura tradizionale e la propria forma di governo – tanto meglio quanto più sarà autocratica e legittima”. L’America così prenderebbe due piccioni con una fava. Approfitterebbe del fatto che Putin si riprende l’Ucraina, cui non vuole e non può in alcun modo rinunciare, perché “è il Texas della Russia”, non per fare un favore a Putin, ma per mettere a posto un ingombrante concorrente commerciale e politico, un’Europa “sinistrorsa” – la destra americana preferisce chiamarla “liberal” – che è sempre stata più la croce che la delizia dell’America. E al tempo stesso “sferrerebbe un colpo durissimo al Pentagono e al Dipartimento di Stato”, cioè ai nemici interni del trumpismo.
Il blogger Curtis Guy Yarvin incita a “dare mano libera alla Russia sul continente”, l’economista Stephen Miran sostiene i dazi a tappeto
Un altro nome non familiare ai più è quello di Stephen Miran. Non ha l’aria “scasciata”, un po’ genio e sregolatezza, un po’ da Rasputin capellone, di Yarvin. Si è addottorato in economia a Harvard, una delle più prestigiose università americane. A 41 anni è stato chiamato da Trump alla Casa Bianca, a presiedere il Council of Economic Advisers. E’ il suo profeta dei dazi. Sostiene che i dazi doganali sarebbero il toccasana, la carta vincente per rafforzare l’economia Usa, rianimare il settore manifatturiero, mettere in riga i concorrenti, rafforzare la posizione internazionale. Propone di alzarli, tutti e comunque, ad un livello tra il 20 e il 50 per cento (attualmente il livello medio si aggira attorno al 2-3 per cento appena; i vistosi dazi già imposti da Trump sono punte che non alterano di molto la proporzione globale). Altro che posizione “transazionale”, leva per negoziare, come lasciavano intendere altri esponenti dell’amministrazione Trump, e speravano, anzi continuano a sperare, molti in Europa. E’ il principale teorico del fare l’America grande di nuovo, ma coi soldi degli altri. Sostiene, a differenza della stragrande maggioranza degli economisti, che non ne deriverebbero affatto spinte inflazionistiche a danno dei consumatori americani.
A rimetterci e a pagare il costo sarebbero solo i consumatori dei Paesi e le imprese che esportano in America più di quello che importano dall’America. I dazi doganali a tappeto incoraggerebbero, anziché scoraggiare, gli investitori internazionali, portandoli a scommettere su un’America vincente nella guerra protezionistica. Consentirebbero di ridurre, come promesso, l’impopolarissimo peso fiscale che grava sui contribuenti americani, lo farebbero pagare agli altri. Se non bastasse, propone di emettere buoni del Tesoro Usa con scadenza da qui a un secolo. Di spostare insomma a generazioni future il già astronomico debito pubblico, e di passarne una parte alle banche centrali del resto del mondo. Conti senza l’oste, che sembrano tenere in poca considerazione che due terzi del debito Usa sono già in mano alla Cina.
Yarvin e Miran sembra parlino di cose diverse. Di strategia politica internazionale l’uno, di economia l’altro. Ma a ben vedere c’è un filo rosso che lega i rispettivi “consigli” a Trump. Entrambi si propongono di “mettere ordine” in un mondo che considerano caotico. Un nuovo “ordine” però non a vantaggio di tutti, solo, esclusivamente e aggressivamente a vantaggio dell’America. Non è un’interpretazione malevola o pessimistica. E’ quello che dicono apertamente, brutalmente, senza peli sulla lingua. Analoghe le ripercussioni di queste proposte sulla politica delle alleanze e sugli equilibri militari. E’ l’Europa a dover pagare la “protezione” americana se ne vuole usufruire. Questo Trump lo dice da sempre. La Pax americana ha un prezzo. I dazi sono anche una parte del tributo imperiale necessario a coprire il costo della sicurezza. Tornano con prepotenza logiche imperiali che si pensava fossero ormai di altri tempi. Li unisce l’odio per l’Europa, per le democrazie europee, l’odio per la “corrotta” democrazia americana, da raddrizzare, anzi rivoluzionare da cima a fondo. Per non dire dell’odio verso i giudici e i contropoteri all’esecutivo.
Yarvin dice che l’obiettivo di Trump dovrebbe essere non utilizzare il potere ma prendere il potere. Dovrebbe pensare in primo luogo a estendere il proprio potere, anziché ottenere dei risultati. Perché i risultati sono una mera “rendita”, ma il potere “è il capitale”. Arriva a invocare per l’America un “presidente monarchico”, così come monarchie, non democrazie, sono i vertici delle aziende. Aveva incitato Trump a ignorare ogni sentenza giudiziaria che lo contraddica, a mettere in riga giudici, stampa liberal, università, a epurare la “burocrazia federale”. L’ha definito progetto RAGE, che suona “rabbia”, ma è l’acronimo di Retire All Government Employees, licenziare tutti gli impiegati governativi. Detto fatto. Non si era vista tanta convinta ed esplicita animosità verso un sistema democratico da quando i nazisti e i loro alleati invocavano la fine della Repubblica di Weimar, “corrotta”, “inefficiente”, alla mercé del “bolscevismo”, e “giudaica” per giunta.
Farneticazioni? Deliri di cani sciolti, di apprendisti stregoni da rinchiudere in manicomio prima che facciano danni irreparabili? Forse. Le speranze sono dure a morire. In politica, si sa, una cosa si dice, un’altra si fa. Ma sarà bene prepararsi al peggio mentre si continua a sperare nel meglio. Sono tutte cose che Trump ha continuato a dire, in campagna elettorale e da quando è di nuovo alla Casa Bianca. Sono probabilmente cose che pensa, non slogan da comizio destinati a rincuorare e compattare i suoi elettori di ieri e di domani. Che ne abbia dette di crude e di cotte già prima del suo mandato precedente, e poi sia addivenuto a più miti consigli, non è una rassicurazione sufficiente. Stavolta è diverso, tra il dire e il fare non c’è più, in tutta apparenza, il mare.
Farneticazioni? Deliri di cani sciolti? Forse. Ma sarà bene prepararsi al peggio mentre si continua a sperare nel meglio
Tutto sta a quali dei suoi consigliori darà ascolto. Non è un refuso, “consigliori”, nel lessico della mafia, è il braccio destro del boss, ovvero colui che aiuta il capofamiglia a decidere cosa fare nelle situazioni più delicate. La volta prima, Trump si era sentito “tradito” da alcuni di quelli che gli erano più vicini, in particolare da quelli che aveva preposto alle questioni militari e alla politica estera. Non ha mai cessato di lamentarsene, giurando tremenda vendetta ai traditori. Al suo primo segretario di Stato, Rex Tillerson, viene attribuita l’affermazione che il suo principale fosse un “genio politico”, capace di interpretare intuitivamente l’umore degli americani, e, al tempo stesso, un “idiota del cazzo” (a fucking moron) sulle conseguenze delle sue scelte politiche. I suoi consiglieri erano stati molte volte in grado di frenarlo. Si dice che i suoi collaboratori riuscissero a farlo ignorando o reinterpretando le sue istruzioni. Si dice che talvolta arrivassero a far sparire dalla sua scrivania documenti e rapporti che rischiavano di fargli prendere decisioni impulsive. Stavolta ha cambiato squadra. Si è circondato quasi esclusivamente di gente obbediente e fedele al capo, di yesmen, sicofanti, gangster pregiudicati.
Nell’Amministrazione precedente, Trump si era sentito “tradito” da chi gli era più vicino. Ora nomina solo gangster e sicofanti
Tanto per restare ai presidenti americani di destra, Nixon poteva contare su Kissinger. Ronald Reagan su George Shultz. Bush padre su personalità del calibro di James Baker e Brent Scowcroft. Bush figlio fu mal consigliato da una cricca ideologica, i cosiddetti neo-conservatori. Trump si affida per le missioni diplomatiche più delicate, medio oriente e Ucraina, al miliardario Steve Witkoff, imprenditore del real estate come lui. Non pare figura capace di indirizzare e orientare il presidente americano, più di quanto il ministro degli esteri russo Lavrov sia in grado di orientare Putin. E già va bene che non ha chiamato al governo il suo adoratore Yarvin, il quale, tra le diverse proposte bizzarre, oltre a quella di abbandonare Ucraina ed Europa alla disciplina di Putin, ha avanzato l’idea di un promettente futuro di sviluppo edilizio balneare e turistico per le coste della Crimea. Ma come direttore della pianificazione politica del Dipartimento di Stato ha nominato Michael Anton, un conservatore ultrà che ha condiviso le idee di Yarvin su come installare un “Cesare americano”.
Wall Street aveva grandi aspettative su Scott Bessent, l’ex manager di hedge funds divenuto segretario al Tesoro. Ma Bessent si è ben guardato dal contraddire anche minimamente la linea dura del suo boss sui dazi. Come suo assistente per la politica economica nazionale e internazionale Trump ha nominato Kevin Hassett, che non ha mai espresso contrarietà alla politica dei dazi, a differenza di Gary Cohn, che l’aveva preceduto nell’incarico durante il primo mandato di Trump. Ha solo timidamente ammesso, in un’intervista alla tv cinese, che potrebbero creare maggiori incertezze. Si dice che sia il candidato di Trump alla successione a Powell alla testa della Federal Reserve. Il consigliere per le politiche commerciali e manifatturiere, Peter Navarro, è un protezionista convinto dell’acciaio e dell’alluminio. La ragione per cui è stato catapultato all’incarico sembra sia che è andato in prigione pur di non testimoniare sull’attacco al Congresso del 6 gennaio 2021. “Il mio Peter”, lo chiama Trump. Quanto al segretario al Commercio, Howard Lutnick, è parco di dichiarazioni pubbliche. Tranne assicurarci che Trump è “il più importante, il più intelligente, il più capace leader politico al mondo”.
Agli elettori americani importa poco o nulla di che fine faccia l’Ucraina, del modo in cui il loro presidente tratta Zelensky, o che prenda a male parole il Messico, il Canada, o gli alleati europei. Ma gli importa molto se i prezzi delle uova e della benzina aumentano, se ripiglia l’inflazione, se l’azzardo sui dazi non funziona. Che le cose sui mercati non stiano proprio andando per il verso desiderato è costretto a riconoscerlo lo stesso Trump. Lui e i suoi ora parlano di un “periodo di transizione”, nel quale le cose potranno andare peggio, prima che ricomincino ad andare meglio. Ma Wall Street è una brutta bestia. Non la si rabbonisce a parole se comincia a sentire puzza di bruciato.
Anche Putin ha i suoi cattivi consiglieri. Non c’è solo Dugin, l’“imprenditore dottrinale” ultranazionalista che sognava un nuovo impero zarista euroasiatico, una sorta di nuova “internazionale fascista”, e incitava alla “guerra santa” all’Ucraina in quanto “guerra all’Occidente”, ovverosia “contro il diavolo”. Da qualche tempo è finito dietro le quinte. Eclissato da qualche tempo anche il consigliere nucleare Sergej Karaganov, quello che invitava a usare senz’altro l’atomica contro “i paesi che sostengono l’aggressione Nato in Ucraina”, a cominciare dalla Polonia, “iena d’Europa”. E’ già cambiata anche la narrazione del numero due del Consiglio di sicurezza russo Dmitri Medvedev, l’equivalente in termini di aggressività, di collettore di tutti i consigli estremisti, del vice di Trump Vance.
Zar Putin tollera male chi gli dice cosa dovrebbe fare. Da qualche tempo, a Mosca non si parla più del nemico “Occidente collettivo”, con in testa l’America e gli stati dell’Unione europea in posizione di “vassalli”. Il nemico è diventato l’“Europa collettiva”. Un articolo pubblicato recentemente su Russia in Global Affairs (pubblicazione “scientifica” in russo e in inglese) dà la misura della correzione, anzi giravolta di linea. E’ firmato da Ilya S. Fabrichnikov, giovane cervello in ascesa dell’Istituto Statale di Relazioni Internazionali. Si dice che Putin sia un frequentatore assiduo delle sue conferenze.
Vi si accusa l’Europa di essere la vera anima nera della guerra in Ucraina. Per i propri interessi, non quelli americani, per dettare alla Russia una cooperazione economica favorevole all’Europa, e, in particolare, per il controllo delle risorse e, soprattutto, delle rotte e dei flussi commerciali nel Mar Nero. Sarebbe stata l’Europa a scatenare la guerra, nell’illusione che si sarebbe conclusa rapidamente. Gran parte dell’articolo è dedicato, con dovizia di cifre e grafici, elenchi dettagliati di tipi di armamento, a dimostrare che l’aiuto europeo all’Ucraina e alla guerra di Zelensky sarebbe venuto in misura maggiore dall’Europa piuttosto che dall’America. Trump l’avrebbe capito e per questo sarebbe corso ai ripari. Disperati per la mala parata, gli europei starebbero cercando scompostamente, in fortissimo ritardo, un piano B, che non hanno. Come tutte le favole, anche questa ha probabilmente un fondo di realtà. Che nel loro primo colloquio Trump e Putin abbiano parlato soprattutto di energia, salvaguardia delle infrastrutture energetiche, di spartizione di risorse come le terre rare, di ripresa degli affari Usa-Russia, piuttosto che di far cessare subito il massacro e di garanzie per la sicurezza dell’Ucraina (e dell’Europa), è indicativo. Trump ha già detto che una presenza americana nelle centrali nucleari ucraine e nei futuri siti di estrazioni minerarie dovrebbe bastare e avanzare.
Da qualche tempo, a Mosca non si parla più del nemico “Occidente collettivo”, con in testa l’America, ma di “Europa collettiva”
Le narrazioni non sono mai neutrali. Come la filosofia – la nottola di Minerva di Hegel – si alzano in volo calata la notte. In genere seguono, non precedono, le scelte politiche. Se questo è l’andazzo nei consigli e nelle narrazioni, l’Europa non è messa bene. A meno che non si dia una scossa.