Dall’alta società americana alla provincia italiana, due intellettuali liberi, scrittori cosmopoliti, osservatori spietati del potere e della società. Menti a confronto
Chissà cosa direbbero oggi. Cosa direbbero dell’America nazificata, dell’Arancione alla Casa Bianca, ma anche della gintoneria globale che è diventato questo nostro mondo. Così, mettiamole insieme queste due vecchie leggende, con anniversari che servono per quel che servono, ma forse raccontano anche una storia comune. Il centenario della nascita di Gore Vidal (West Point, 3 ottobre 1925 – Los Angeles, 31 luglio 2012), e i primi cinque anni dalla morte di Alberto Arbasino (Voghera, 22 gennaio 1930-Milano, 22 marzo 2020) tracciano una traiettoria scintillante del Novecento. Da Washington a Voghera.
Il più aristocratico degli intellettuali americani nasceva sotto la stella di una antica famiglia poi contortamente imparentata coi Kennedy (il secondo marito di sua madre si era risposato con la mamma di Jackie). Ma la figura centrale era il nonno, il senatore Gore, cieco dall’età di dieci anni che nonostante l’handicap aveva fatto una importante carriera parlamentare com’era nella tradizione di famiglia. Tanto che Vidal a un certo punto si era preso come nome di battesimo il cognome di quel nonno fondamentale (gli stessi Gore dell’ex vicepresidente ecologista) con quei complicati mutamenti anagrafici tipici dell’America. Bello, atletico, brillante, Vidal sembrava il perfetto continuatore della sua specie mentre col terzo romanzo, “La statua di sale”, uno dei primi in America in cui si racconta esplicitamente di un amore gay, verrà considerato il traditore della sua razza e classe. Il New York Times (ogni epoca ha la sua cancel culture) non recensirà più per anni un’opera di costui. Lo scrittore, come sempre quando si hanno guai su una Costa, si butta sull’altra, rotola in California dove si mette a scrivere per il cinema. Avrà un famoso villone a Malibu in coabitazione con Paul Newman e Joanne Woodward.
E poi in Italia. Vidal e Arbasino arrivano a Roma tutti e due lo stesso anno, il ’58. Arbasino al seguito del professor Roberto Ago, barone del diritto internazionale, quando ancora pensava alla carriera giuridica-diplomatica, e nello stesso anno incontra Pasolini che gli pubblica le prime poesie sulla rivista “Officina” (l’incontro avviene sul barcone del Ciriola, sul Tevere). A Roma perché “Bisogna vivere nella capitale del proprio paese”, secondo AA. Invece Vidal lascia l’impero e si installa nella capitale delle colonie perché, come ammetterà, “le marchette costano poco”, si prende un leggendario attico a piazza di Torre Argentina, sopra la attuale libreria Feltrinelli. Scrive sceneggiature, tra cui “Ben-Hur”, fa in tempo a recitare se stesso nel film più importante che sia mai stato fatto su Roma, cioè il “Roma” di Fellini. Subito il nomignolo felliniano, “Gorino”. Intervistato durante la festa de Noantri, a chi gli chiede “cosa fa uno scrittore di fama internazionale a Trastevere” risponde: “Roma è il posto perfetto per vedere se la fine del mondo arriva davvero, o no”.
Arbasino invece Fellini non lo amava. Soprattutto per lo sfruttamento di scrittori e sceneggiatori che il regista rapiva per giorni interi in passeggiate oniriche tra Fregene e il litorale, e soprattutto per il trattamento riservato all’amato Ennio Flaiano culminato nel famoso viaggio di ritiro dell’Oscar di “Otto e mezzo” (in aereo Fellini in prima, lo sceneggiatore in classe economica). Ma anche con Visconti pessimi rapporti, sfottò orali e scritti (“nel suo cinema la passamaneria ha la meglio sulla poesia”, scrisse da qualche parte; e poi la figura di un regista araldico e altezzoso in “Fratelli d’Italia”, il suo romanzo maggiore, e il racconto del trattamento degli attori con piglio feudale e poi i regalini riparatori a Natale. Ci aveva provato a sua volta col cinema, Arbasino, scrivendo e semi-dirigendo “La Bella di Lodi” (ma non c’è nei credit insieme a Mario Missiroli, che firma), dal suo romanzo su due fratelli belli e giovani con tenute in Lombardia e lei che si invaghisce di un bonazzo meccanico, tra Forte dei Marmi e Lodi, interpretata da una magnifica Stefania Sandrelli poi doppiata da Adriana Asti (frase culto: “Se non ci si aiuta tra noi spider”).
Arbasino poi non amava in generale il mondo dei cinematografari, dei produttori e registi vampiri di scrittori. Anche oggi, quante volte capita che ti scrivono dal nulla, “Ammiro molto il tuo lavoro, sai”; oppure il classico “Ti leggo sempre”. “C’è un progettino di cui vorrei parlarti”, e a quel punto lo scrivente, titillato nell’animo e sentendo l’odore finalmente di qualche guadagno vero, si illude, inizia l’attesa dell’altro e il rapporto di potere subito si capovolge. Il cinematografaro a quel punto scompare. Il cinematografaro esercita il ghosting da prima che questo si chiamasse così. Le ragioni non sono mai state chiarite. Passano i mesi, gli anni, lo scrivente si è rassegnato, poi magari a un funerale – a Roma i funerali sono la più efficace forma di networking – riecco er regista o produttore. “Proprio te cercavo! Dobbiamo parlare di quel progettino”. Ma se mi cercavi, sosteneva Arbasino in “Fratelli d’Italia”, correva l’anno 1963, “perché mai non mi hai mai più chiamato?”.
Disavventure cinematografiche pure per Vidal. Per “Ben-Hur non fu mai accreditato. Era stato mandato a Roma ad aggiustare la sceneggiatura di quel “peplum” che non funzionava, accettò solo a patto che la MGM lo lasciasse poi libero per sempre di scrivere solo i suoi libri. Invece dal suo bellissimo romanzo “Myra Breckinridge”, venne il kolossal con Raquel Welch uomo che decide di diventare la vedova di sé stesso. Vidal sostenne sempre che era la sua opera preferita. E di nuovo: bisognerebbe scrivere oggi un “Myra Breckinridge” su un pòro signore o signora che decide di cambiare sesso e si risveglia con Trump. Sul New York Times, qualche giorno fa, le storie di malcapitat/e che han cambiato sesso vent’anni fa e ora, con la nuova legge, rinnovando patenti o passaporti, si ritrovano la vecchia identità coi problemi che si immaginano oltre che di malessere anche bancari, postali, anagrafici, ecc.
Ci sono delle foto che li ritraggono insieme a Ravello nel 1983, insieme a Italo Calvino, per la concessione della cittadinanza onoraria allo scrittore americano. Dopo Roma infatti Vidal era rotolato più giù, a Ravello, dove nel ’72 si era comprato una villa in coppa a una scogliera, La Rondinaia, in un grande trend di intellectual-celebrity con uso di scoglio (la Colombaia a Ischia di Visconti, Zeffirelli a Positano, Nureyev addirittura un’intera isola privata, Li Galli).
In Costiera era arrivato con l’amico Tennessee Williams, osservando: “sembra che ogni città italiana sia sotto tutela di uno scrittore straniero”, scrive in “Navigando a vista”, parte seconda delle magnifiche memorie goriane iniziate con “Palinsesto”, pubblicate in Italia da Fazi. Ravello gli sembrava il posto migliore, davanti al magnifico mare, per guardare idealmente il suo unico vero amore disperato e disperante, l’America. A Ravello Vidal si divertiva molto a dare consigli politici a sindaco e assessori, stando in piazza e ascoltando i pettegolezzi, mentre da casa passavano Hillary Clinton, la “sorellastra” Jackie Kennedy, Nureyev, Orson Welles e Andy Warhol e la principessa Margaret e Sting e tutti i potenti-famosi del globo insieme ad emozionati sindaci locali con fasce tricolore e facce sudate.
Dalla Costiera alla West Coast, simmetrico, Arbasino aveva scelto l’America come sua patria di elezione: fin da ragazzo, viaggi sempre più lunghi sulle due coste e poi i seminari estivi a Harvard con Kissinger che poi tornando in Italia lo cercava (ci sono tutte le lettere e cartoline scambiate col fratello Mario oggi al Gabinetto Vieusseux di Firenze, “allo scrittore Alberto Arbasino: 6, Divinity Avenue, Cambridge Massachusetts”. Divinity Avenue! Che indirizzo!). Ma oggi, mondi finiti. Harvard crolla sotto la scure trumpiana, tolti i finanziamenti per eccessi di woke. Ma levato il woke, rimarrà qualcosa dell’America nostra amata? Ne valeva la pena? Chissà. Il vecchio Arba metteva in guardia dagli eccessi del politicamente corretto (“o p.c.., da non confondere col Partito Comunista”), già nel 1998. Oggi, del nuovo maccartismo, che direbbe?
E “Gore”, altra figura di moralista (nel senso di mores), coi saggi sull’America attuale, e le “Narratives of Empire”, che abbracciano la storia statunitense dai primi dell’Ottocento (“Burr”) alla Seconda guerra mondiale (“L’età dell’oro”). E poi l’antica Roma e il mondo classico (“Il giudizio di Paride”, 1953; “Giuliano”, 1964, “Creazione”, 1981) in una colossale cosmogonia tra Atene, Capri, Rodeo Drive e la Casa Bianca. Non tutto è stato tradotto, e bisognerebbe, e che elegante sarebbe per esempio un “revamp” by Adelphi.
Mentre Arbasino parte dalle poesie per passare ai romanzi, ai “Fratelli d’Italia” ampliato in tre versioni fino a quella gargantuesca degli anni Novanta, e poi i saggi politico-civili sull’Italia (“Un paese senza”, “In questo stato”. Due vite e due carriere fortunatamente graziate dalla lontananza dall’accademia (se pensiamo che ad Arbasino in 50 anni è stato dedicato un unico convegno universitario, dall’università di Padova, nel ’22); forse per l’incapacità di far parte di gruppi e gruppetti di potere. Stessa libertà intellettuale, del resto: “Dalla Seconda Guerra Mondiale, l’Italia è riuscita, con caratteristico talento, a creare una società che combina alcuni dei meno affascinanti aspetti del socialismo con, in pratica, tutti i vizi del capitalismo”. Potrebbe essere Arbasino, ma è Gore Vidal. Stessa capacità di leggere la politica, stesso uso di mondo, il contrario dello scrittore “appartato e schivo” (copyright Arbasino). Erano anche due stroncatori fantastici in un’epoca in cui la stroncatura era incoraggiata: “La prosa di Pynchon sferraglia su e giù, interrotta qua e là da canzoni interminabili che, dal punto di vista lirico, sono brutte tanto quanto quelle di Bob Dylan” (Gore Vidal). Di Arbasino e Visconti si è detto.
Aforismi: Gore Vidal: “Quando un amico ha successo io muoio un po”; “Non basta vincere: gli altri devono fallire”; “Non perdo mai occasione di fare sesso o andare in tv”. Arbasino: “la vita dell’intellettuale italiano conosce tre fasi: brillante promessa; solito stronzo; pochissimi riescono ad arrivare a venerato maestro”.
Avevano anche una concezione stranamente simile, il patrizio washingtoniano e il borghese di Voghera, sull’omosessualità. “Non esiste l’essere gay, esistono solo atti sessuali gay”, diceva Vidal. “Se proprio devo essere etichettato in qualche modo, allora direi porschista, perché tengo in mano molto più spesso il cambio della mia auto che un membro maschile” (Arbasino).
Entrambi erano stati celebrati definitivamente nel terzo atto della loro vita. Vidal nella sua fase più gruppettara e un po’ populista, “antiamericana” contro l’America dei Bush, dimenticato in patria e rilanciato qui da Elido Fazi, che a un certo punto l’andò a stanare in Costiera e lo sedusse: taxi pagati fino a Roma, open bar e conto aperto all’Hotel d’Inghilterra (a un certo punto i dipendenti della Fazi scesero in sciopero: più stipendi, meno whisky per Vidal!). Arbasino invece venerato maestro memorialista su Corriere, Repubblica, da Fabio Fazio e chez Calasso.
Probabilmente si erano frequentati anche, a Roma, ma in tanti anni di indagini arbasiniane non sono mai incappato in qualcosa di scritto (cit.) su e tra i due. Non c’è un ritratto raccolto nei vari volumi di profili, di sicuro niente di paragonabile alle molte memorie perfide di Arbasino su Truman Capote, culminate nella feroce introduzione del Meridiano Mondadori dedicato allo scrittore di “A sangue freddo”.
Capote era poi il venerato nemico di Vidal: stesso livello di celebrità intellettuale globale. Però Capote basso, autodistruttivo, nato povero, smanioso di frequentare bene (smanioso anche Gore, ma la nascita gli permetteva lo snobismo, e una battuta micidiale: “Truman sta facendo di tutto per entrare negli ambienti da cui io faccio di tutto per scappare”). Anche, cause civili tra i due. Capote raccontò che Vidal a un certo punto era stato sbattuto fuori da un party alla Casa Bianca perché avrebbe – qui le versioni mi pare che discordino – o fatto una battutaccia o infilato una mano nella scollatura della first lady sua sorellastra. Vidal chiama gli avvocati.
Sia Vidal che Arbasino avevano poi la fascinazione per la politica. Il primo aveva provato a candidarsi due volte senza successo, una alla Camera e una al Senato. La prima era il 1960, l’anno in cui correva e vinceva il suo quasi parente Jfk (“la persona più affascinante che abbia mai conosciuto ma anche il peggior presidente che l’America abbia mai avuto”). Chissà cosa direbbe oggi. Ma magari starebbe con Trump e con Putin. Era contro l’export di democrazia americano: “Non abbiamo un’istruzione pubblica. Né la sanità. Ma abbiamo sempre due o tre guerre in ballo”. Teorizzava che Pearl Harbor fosse un auto attacco americano. Diverso l’11 settembre; i repubblicani “sono capaci di tutto ma sono troppo stupidi per aver organizzato qualcosa del genere”. Chissà cosa direbbe del fatto che il nome dell’aereo che sganciò la bomba atomica, Enola Gay, oggi è “cancellato” secondo il nuovo stile Cencelli-Trump (e lo scrittore Gay Talese? Cancelleranno anche lui?).
Vidal comunque non venne mai eletto, a differenza di Arbasino che nei primi anni Ottanta si fa una legislatura nelle file del partito Repubblicano (quello di La Malfa, non di Trump. Ma era un periodo che si usava, Eugenio Scalfari, Natalia Ginzburg e altri intellettuali un “giro” in parlamento se lo facevano). Esperienza fallimentare, comunque, con AA che finisce in “prima commissione. Affari interni e di culto”. Lo mandano a fare le fotocopie. Record di presenze in aula, il primo ad arrivare la mattina. Proposte di legge: per allargare il tribunale di Voghera, per intitolare una via alla concittadina scrittrice Carolina Invernizio, allora simbolo del trash, “l’onesta gallina della letteratura italiana”, secondo Gramsci. Oggi in piena rivalutazione, inserita da Vera Gheno in una antologia femminista.
Ma oggi, oggi, in questo mondo qua, che farebbero questi due single men strepitosi? Vidal sarebbe asserragliato alla Rondinaia o andrebbe da Giletti in tv? Arbasino rischierebbe invece forse di essere arrestato o “detained” come i grupponi di turisti tedeschi che in questi giorni sono stati bloccati, alla frontiera dell’America nuovo stato canaglia? E il segretario di Stato che d’estate veniva in Italia a trovare gli ex allievi dopo i seminari ad Harvard? Che si direbbe oggi Arba con Marco Rubio? Meglio chiudersi a Voghera, in attesa di tempi migliori, signora mia.