Meloni establishment a metà. Il passo che manca in Europa alla premier

In Europa, la presidente del Consiglio continua ad andare verso la direzione giusta, non si fa travolgere dal trumpismo, dà lezioni di ventotenismo al Pd, ma il suo essere ancora establishment a metà è un guaio e ora il prezzo rischia di essere alto

Nei momenti di difficoltà, nei momenti cruciali, nei momenti in cui occorre fare una scelta decisa e mostrare con chiarezza in quale campo si sceglie di giocare, l’Europa, di solito, funziona sempre come uno specchio diabolico, come un riflesso spietato, e di fronte alle scelte importanti – per quanto si possa essere ambigui, vaghi, furbi nel proprio paese – quando si arriva in una delle grandi istituzioni europee, che sia il Parlamento europeo o che sia il Consiglio europeo, alla fine tanta scelta non c’è: o si sta di qua o si sta di là, e se non si sta né di qua né di là si sceglie di stare dalla parte della non-politica, della marginalità, dell’irrilevanza. Anche in questo caso, per l’Italia, per Giorgia Meloni in particolare, l’Europa era e continua a essere uno specchio perfetto per decrittare lo stato di salute politico del nostro paese. E’ uno specchio perché ci ricorda quanto il matrimonio tra Meloni e Salvini sia sempre di più un rapporto basato solo sulla convenienza e il fatto che Salvini si senta a suo agio ogni volta che Meloni va in Europa a fare quello che Salvini suggerisce di non fare dovrebbe dare a Salvini la dimensione esatta del suo peso nel governo: zeru tituli, avrebbe detto un tempo Mourinho.

E’ uno specchio perché ci ricorda quanto le posizioni del Partito democratico, in Europa, posizioni di marginalità assoluta, di irrilevanza strategica, di irresponsabilità manifesta, abbiano permesso a Meloni di essere l’unica, nel panorama politico attuale, a poter essere considerata desiderosa di attuare gli elementi più europeisti del famoso Manifesto di Ventotene, che insieme a molti elementi discutibili contiene ovviamente tratti di europeismo formidabile come questo: “Occorre fin d’ora gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per far sorgere il nuovo organismo, che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa; per costituire un largo stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali”, ed essere contro il riarmo europeo, come è il Pd, oltre che la Lega, significa voler difendere il Manifesto di Ventotene senza sapere neppure cosa vi è scritto.

L’Europa, ancora una volta, è lo specchio delle virtù, dei vizi, dei tabù dei partiti nazionali. E come succede spesso ogni volta che ci si avvicina all’Europa è lì che la presidente del Consiglio riesce a dare maggiore consistenza al suo europeismo. Al momento del dunque, negli ultimi mesi, Meloni ha fatto passi avanti significativi verso l’establishment europeo, appoggiando il patto sull’asilo e sui migranti (cosa che non avrebbe mai fatto Marine Le Pen), sostenendo il nuovo Patto di stabilità (cosa che non ha fatto Matteo Salvini), votando a favore di ogni sanzione contro la Russia (in un’occasione portando dalla parte dell’Ucraina anche l’Ungheria), appoggiando la resistenza eroica di Zelensky & Co. (ieri anche Meloni ha sottoscritto il passaggio con cui il Consiglio europeo ha ribadito “il suo continuo e incrollabile sostegno all’indipendenza, alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina entro i suoi confini riconosciuti a livello internazionale”) sostenendo la presidente della Commissione europea anche a costo di allontanarsi dai suoi amici storici (Orbán & Co.) e arrivando a essere oggi l’unico grande partito italiano (insieme con Forza Italia) favorevole al piano del ReArm Europe (ma non chiamatelo così).

Eppure, anche in queste ore in cui Meloni mostra di andare in Europa verso la direzione giusta, nella postura della premier c’è qualcosa che non funziona, che difetta. Ed è qualcosa che non riguarda solo un passaggio dell’intervento fatto al Consiglio europeo dal presidente Zelensky, che si riferiva anche all’Italia quando, dopo aver ringraziato “coloro che stanno lavorando con noi sulle future garanzie di sicurezza per l’Ucraina e per l’intero fianco orientale dell’Europa e per il continente nel suo complesso”, ha invitato “a farlo” anche tutti “coloro che non hanno ancora aderito a questo sforzo”. Ma è un qualcosa che riguarda un equilibrismo ancora più spericolato rispetto al rapporto complicato e imbarazzante che Meloni ha con Trump (prima o poi chiederemo al Foglio AI di scrivere tutto quello che Meloni vorrebbe dire a Trump ma non ha la forza di dire). E la questione è questa. I passi in avanti fatti da Meloni in questi anni in Europa è come se fossero avvenuti a titolo personale, sono passi in avanti fatti nonostante la natura della coalizione, nonostante le posizioni degli alleati, nonostante la storia di Fratelli d’Italia, nonostante le posizioni del gruppo europeo di cui fa parte FdI, nonostante la contrarietà di Salvini, nonostante i rapporti con i vecchi amici di Meloni, e negli ultimi tempi nonostante il legame politico con Trump, e il punto è evidente: nonostante Meloni si sia avvicinata con forza all’establishment europeo, il suo volersi considerare ancora quello che non è, una leader anti establishment, non le consente di essere un motore dell’establishment europeo.

C’entra ovviamente l’imbarazzo dell’essere una trumpiana anomala, trumpiana come rapporti di amicizia con Trump, a-trumpiana come direzione del governo, non trumpiana come posizione in Europa. Ma c’entra anche l’essere, in Europa, fuori dai grandi gruppi politici, e dunque fuori dai giochi quando in automatico l’Europa nei momenti di crisi si affida agli equilibri tradizionali per prendere decisioni straordinarie: Francia, Germania e ora, di nuovo Regno Unito. Tre giorni dopo le elezioni in Germania, Merz è volato a Parigi, non a Roma, per cenare con Macron, non con Meloni. Pochi giorni dopo le minacce di Trump all’Ucraina, a mettere in movimento l’Europa sono stati i leader, rinvigoriti, di Francia e Regno Unito, e non l’Italia. I passi in avanti in Europa sono giusti, e se volessimo essere paradossali, ma non troppo, potremmo dire che ciò che di buono vi era nel Manifesto di Ventotene è rappresentato più dalla leader che ha demolito quel Manifesto che dai leader che lo hanno difeso. Ma nella crescita di Meloni il passaggio che manca è sempre quello: trovare un modo per diventare establishment, in Europa, muoversi nei contesti europei superando la fase del “nonostante”, e rendersi conto che nella stagione del trumpismo aggressivo essere attendisti non significa coltivare la prudenza ma significa rischiare l’ininfluenza. Lo spazio c’è, la svolta c’è già stata, prenderne atto è l’unico modo per evitare che nel nuovo treno europeo l’Italia sia un vagone e non una locomotiva.

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  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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