L’allenatore ci spiega come è riuscito a portare la squadra lombarda in testa alla Serie A. “La nostra forza è una: no aspettative. Giocare insieme, cavalcare le nostre doti. Godiamocela”
A ognuno i suoi princìpi. Quelli di Peppe Poeta sono tre: “Entusiasmo, impegno, tolleranza. È il mio modo di fare l’allenatore”. Prendiamo nota, la terra sarebbe un posto migliore. Ma oggi accontentiamoci del suo basket e di questo coach pieno di sole, cuore, amore. Si definisce “un italiano medio”, gli piacciono “il calcio, i viaggi, il cibo, stare in compagnia”, si sente “una persona semplice”. Ma con Poeta, 40 anni a settembre, è solo una facciata. L’uomo che alla Germani Brescia ha cementato una stagione da sogno (la squadra è prima con Virtus, Trento e Trapani e guarda i play-off) è profondo, curioso, mai superficiale. “La nostra forza è una: no aspettative. Giocare insieme, cavalcare le nostre doti. Godiamocela”. Dietro Peppe ci sono i princìpi, appunto, che arrivano dal suo percorso nella pallacanestro. Nessuno lo prendeva sul serio. In un mondo di giganti, che ci facevi con un play magrolino di uno e ottantacinque? “Nemmeno io ci credevo. Non ho mai fatto una nazionale giovanile, non avevo mai sognato la Serie A. Mi sono goduto il viaggio”. È stato un giocatore al top. Poi Ettore Messina e Gianmarco Pozzecco lo hanno aiutato a forgiarsi come allenatore. La sua prima stagione da solo sta andando a gonfie vele. “Oltre ogni più rosea aspettativa – dice -, si è creata una chimica di squadra e con la gente. E a Brescia si sta benissimo”.
Cosa c’è dietro un allenatore, lo ha capito?
“La cosa più bella e complessa è che devi pensare per tante teste. Il giocatore, anche il più altruista, pensa a sé, alla performance. L’allenatore è esattamente il contrario”.
E le piace?
“Molto. Sono felice quando le persone attorno a me sono felici. Anzi, mi piace provare a rendere felici gli altri”.
Cosa significa tolleranza per lei?
“È una virtù portante di tutti, per esaltare i pregi di ogni essere umano. Bisogna accettarne i difetti. E l’accettazione dei difetti sta nell’essere tollerante. Io ho avuto una fortuna: non sono un giocatore che ha vinto tantissimo, ma non ho giocato in Eurolega (solo un anno) e comunque non da protagonista. Però una cosa posso dirla”.
Quale?
“Ho avuto la fortuna di essere stato allenato da grandi allenatori. E di aver vissuto tutte le categorie e in tutte le forme. Da play titolare, da secondo play, da terzo che non gioca mai. Noi siamo frutto delle esperienze. E questo mi aiuta con i ragazzi”.
Conosce i loro stati d’animo.
“So che cosa vuol sentirsi dire il dodicesimo in determinate circostanze. So cosa vuol sentirsi dire il titolare. E lo so perché quelle cose le ho provate”.
Un allenatore cosa deve fare?
“Diciamo cosa non deve fare: non deve fare danni. E poi deve provare a esaltare i pregi e nascondere difetti. Tanti mi chiedono qual è la pallacanestro di Peppe. Non importa, quel che conta è esaltare i pregi di ognuno e provare a nascondere i difetti”.
Un coach deve essere anche odiato?
(ride). “È un topic. Ma io non ci riuscirei. Quindi non so la risposta giusta. Può darsi. Non ho odiato mai nessuno, io. Ma capisco che a volte il bastone può fare sì che un giocatore migliori. Non lo so. Però ho una certezza: preferisco non vincere che essere odiato”.
È stato un dubbio nelle sue scelte post carriera?
“In qualche modo sì. Perché ci sono mini-conflitti che devi affrontare. Ma ho scoperto che non sto avendo conflitti. Non è detto che sarà sempre così”.
Messina chi è stato per lei?
“Una scuola. Ho provato ad attingere il più possibile da lui. Con Ettore ho un bel rapporto e gli sono molto grato. Mi ha dato la possibilità di fare da due anni ai livelli più alti con lui”.
Un altro a cui è grato è Pozzecco?
“Assolutamente sì. Mi ha accompagnato dandomi tanti consigli per la transizione da allenatore a giocatore. Lui l’aveva vissuta in prima persona. Siamo amici, ci siamo conosciuti a Formentera quando giocavamo”.
Cosa ha capito dei suoi quarant’anni?
“Che sono una persona con ancora tante cose da capire e scoprire. Sono molto leggero, vivo alla giornata. Ma non ho cose strane. Mi piace lo sport, stare in mezzo alla gente, sono curioso. La qualità della vita per me è importante. Adoro la pallacanestro, mi impegno al massimo. Vendo tantissime partite e lo faccio con la passione più grande del mondo. Ma non ne sono ossessionato. Mi piace godermi la vita. Uno può dire: ma come, se non sei ossessionato non te ne frega nulla. Non è così”.
Com’è stato crescere a Battipaglia?
“Formativo. Non è il posto più semplice del mondo. Però ho avuto due genitori fantastici. Mio padre professore di religione e giornalista, faceva l’ufficio stampa della banca. Ha 67 anni, è in pensione. Mamma dottoressa, attiva nei servizi sociali. Onestamente: mi hanno dato dei valori. Che si mescolano alla cazzimma che ci vuole a Battipaglia”.
La seguono anche da allenatore?
“Certo, mi hanno accompagnato sempre, si sono goduti il viaggio con me. Dall’esterno, senza mai forzare o intromettersi. Una volta al mese vengono a Brescia”.
Come finisce questo campionato?
“È bello, avvincente. Noi abbiamo approfittato di questo impegno devastante che hanno Milano e Virtus in Eurolega. Anche se sono stanche, i valori sono chiari. Vedremo con i play-off”.
Ma è vero che era (o è) un calciatore fortissimo?
“A Battipaglia facevo tutto. Stavo in mezzo alla strada a giocare, e poi bici, tennis, calcio, basket. Per il calcio avevo un buon fisico. Ero polivalente. Andavo anche in porta, ho fatto la punta. Ma quello che mi piaceva di più era il centrocampista, alla Pogba. Giocavo nella squadra del paese. L’ultimo torneo l’ho giocato da prima punta. Ma ho fatto anche un campionato studentesco importante e il prof voleva che facessi il portiere”.
È vero che stava per firmare con una squadra di Seconda categoria?
“Sì, ma si allenano alle 20.30. Sono amici. Vieni a giocare con noi, mi hanno detto. Poi Carlo, il mio preparatore, mi dice: fidati, ti fai male. E allora ok, meglio di no. Ma il calcio mi piace. Anni fa, durante una riabilitazione all’Isokinetic, eravamo io, Alino Diamanti che giocava nel Bologna e Gagliardini, che era all’Atalanta. Giocavamo a chi prendeva più traverse”.