Ottanta anni di Pat Riley

Nella Nba ha avuto il peso che il Mago Herrera ha avuto nel calcio italiano. È stato l’unico a vincere la Nba da giocatore, allenatore e dirigente

Il fermo-immagine dei tempi d’oro lo fissa sempre in posa per la Storia: elegantissimo, la camicia bianca di Armani, il completo preferibilmente grigio, la mascella tesa, i capelli modulati all’indietro con la brillantina, da Soprano prima dei Soprano, lo sguardo a seguire la traccia di Magic Johnson o Kareem Abdul Jabbar, le punte di diamante della favolosa generazione che ha allenato alla guida dei Lakers di Los Angeles, quattro titoli Nba (e sette finali) dal 1981 al 1990. Pat Riley. The Coach. 80 anni oggi, attualmente presidente dei Miami Heat. Mai stata così glamour come in quel decennio, Los Angeles. E Showtime sia. Ha vinto tutto, indossando abiti di alta sartoria, spiegando che la strada per il successo richiede disciplina e sacrificio, custodendo arringhe per ogni questione. Amato, detestato. Egocentrico, ossessionato dal potere. Ha marcato nella Nba lo stesso impatto del Mago Helenio Herrera nel calcio. Prima di loro, gli allenatori erano comparse, figure in lontananza, sempre a lato nelle foto di gruppo. Con Pat Riley il Coach è diventato un termine da declinare in maiuscolo.

Ultimo di sei figli, padre giocatore di baseball, cresciuto a Schenectady, New York. Full Metal Pat. Metodi da caserma, piglio da colonnello. Sveglia alle sei di mattina, prima sessione in palestra. Sasha Danilovic, per dirne uno, lo ebbe a Miami ma a un certo punto fece le valigie e salutò la compagnia. Leggendari (o forse no) i secchi che faceva sistemare a bordo campo dopo gli allenamenti: se i suoi dovevano vomitare per la fatica, certo che potevano farlo. Oh, se sapeva parlare ai giocatori. E’ stato il lato B del guru Phil Jackson. Santone, a modo suo: più pragmatico che aulico. Da ognuno di loro tirava fuori il meglio. Non un tipo facile, per niente. Arrogante con i giornalisti, a muso duro con i colleghi. Giocatore discreto, gregario con clamorosi basettoni a la page, cominciò a seguire i Lakers da annunciatore radiofonico, quindi entrò nello staff da vice, infine da sovrano assoluto. Era l’alba degli anni Ottanta, aveva 36 anni e un piano in testa: trasformare una squadra in crisi in una Festa mobile. Operazione riuscita. Nel 1987, mentre nell’aria volavano ancora i coriandoli e i tappi di champagne, disse: “Il titolo lo vinceremo ancora noi”. Nella Nba non succedeva da vent’anni. Prometteva, manteneva. Il carisma, la mentalità vincente, la postura del comandante che non abbandona mai la nave, men che meno quando infuria la tempesta.

Nella sua second-life post-Lakers, ha allenato prima di New York Knicks (strabiliante finale persa con gli Houston Rockets) e poi si è seduto sul trono di Miami, dove – tenendo al guinzaglio la classe di Shaquille O’Neill – nel 2006 ha messo in bacheca il quinto titolo personale e più tardi – 2012 e 2013 – ha conquistato da presidente altri due titoli. Il che fa di lui l’unico a vincere la Nba da giocatore, allenatore e dirigente. Intanto era cambiato il basket, era cambiata la Nba, è cambiato anche lui.

Raccontano che un mese fa, per evitare il trasferimento di Jimmy Butler da Miami a Golden State, si sia persino messo a piangere, commosso nel ricordare alla superstar un aneddoto che riguardava il rapporto con suo padre (spoiler: Butler ha fatto spallucce). Forse Pat Riley si è addolcito. Chissà se oggi farebbe costruire – come fece negli anni Ottanta – le porte della sua villa alte poco più di lui, un metro e novanta più qualche centimetro. Così ordinò agli architetti, perché tutti i giganti dei Lakers, quando venivano invitati a cena, fossero costretti ad abbassarsi per passare, in quello che doveva sembrare – lo era – un vero e proprio inchino al padrone di casa.

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