C’è voluto del tempo, oltre un secolo, affinché ci si rendesse conto che la meraviglia del pavé della Parigi-Roubaix non poteva essere confinata in un’unica giornata all’anno. E così il Gp de Denain ha preso in prestito un po’ delle pietre e ci ha fatto una corsa
Lì sulle stradine in pietra della campagna di quella Francia che odora di Fiandra, le biciclette sobbalzano, si scuotono, scintillano e tintinnano in un modo speciale, impossibile da replicare altrove. È un movimento veloce e scombussolato, che mai segue pienamente il volere dell’uomo. Lassù non è mai solo questione di gambe. Contano anche altre cose che non hanno patria altrove, tipo la leggerezza della potenza e la fiducia nella bicicletta. Sul pavé serve assecondare la bicicletta, serve essere consapevoli che non l’uomo, ma la bicicletta ha il controllo della situazione, la capacità di trovare la strada giusta. Per questo serve assecondarla.
Lassù non si è solo corridori, serve essere alchimisti dell’equilibrio, avere quella sensibilità particolare, completamente ascientifica e un filo credulona, di provare a diventare tutt’uno con la terra e la pietra. E così trovare pedalata dopo pedalata la pietra giusta.
A volte bastano pochi chilometri per trovarla. Quasi sempre non la si riesce mai a raggiungere. Fugge e non si riesce ad afferrare come la polvere che sale dal pavé e che tutto avvolge, si deposita su visi, gambe e braccia, su pantaloncini e maglietta, ovunque, senza però poter essere mai agguantata.
Sfugge. Come sfugge a volte pure la capacità di rendersi conto di ciò che dovrebbe essere evidente.
C’è voluto del tempo, oltre un secolo, affinché ci si rendesse conto che tutta questa meraviglia non poteva essere confinata in un’unica giornata all’anno. Perché non c’è mai stata una corsa simile alla Parigi-Roubaix. È unica la Parigi-Roubaix, inimitabile. E per fortuna. Perché ci vogliono giorni per riprendersi dalla Parigi-Roubaix: mani e gambe tremano a lungo, il sedere fa male come fanno male spalle e schiena. È un dolore accettabile (più o meno e solo in assenza di cadute), perché si lega ai ricordi di una corsa affascinante e da batticuore. Perché in fondo lo si sa che tipo di corsa è questa.
Il Gp de Denain non è la Roubaix, non lo sarà mai. Non ha il Carrefour de l’Arbre e la Foresta di Arenberg, non Mons-en-Pévèle e nemmeno Camphin-en-Pévèle. Però la sua ventina abbondante di chilometri di pavé ce li ha ed è un gran bel vedere comunque.
Il Gp de Denain non è la Roubaix anche perché al via non ci sono i campioni che corrono la Roubaix, ma qualche buona indicazione la dà sempre. Qualche accenno di futuro emerge dalla polvere o dal fango del pavé che è della Roubaix senza esserlo fino in fondo.
Giovedì 20 marzo, sulle pietre delle strade di campagna nelnord della Francia che si ostinano a rimanere ferme in un tempo sospeso, è emerso dalla polvere del Gp de Denain l’inglese Matthew Brennan, uno che dice di non sapere ancora dove di preciso sa andare forte, ma che, a diciannove anni, ha già dimostrato di saper andare forte quasi dappertutto. Pure sulle pietre, lì dove aveva sempre pensato di non essere poi questo granché. O almeno quelle francesi, perché per quanto riguarda quelle verticali delle Fiandre è diverso. Ha corso da corridore d’esperienza, ha gestito il suo talento a ruota dei più forti, tirando quando era il momento di farlo, provando l’allungo quando ne vedeva lo spazio, ma senza mai strafare. Poi sprintando e forte sul rettifilo finale. Perché veloce lo è sempre stato. Esserlo pure dopo il pavé non era scontato.