Se avesse voluto sferrare un vero colpo basso ai parlamentari, il senatore avrebbe dovuto firmare per rendere obbligatorio il doppio lavoro dei colleghi, non per proibirlo: può presentarsi alle elezioni solo chi dimostra che, senza politica, non morirebbe di fame
Io capisco Matteo Renzi e l’irritazione che deve averlo indotto a firmare la proposta di legge per proibire il doppio lavoro dei parlamentari. A furia di sentirsi dire che non deve far questo e non deve far quello, che sta male ricevere denaro da fonti diverse dallo stato e che è per certi versi disdicevole che un parlamentare sappia far altro oltre a scaldare il seggio, gli sarà saltata la mosca al naso, quindi ha optato per la tattica di Sansone che muore con tutti i filistei: via la possibilità di fare il parlamentare e l’avvocato, il parlamentare e l’ingegnere, il parlamentare e qualsiasi altra professione.
Sono lontani i tempi in cui, nel parlamento inglese del Seicento, i membri della House of Commons rappresentavano gli interessi della professione che praticavano; sono lontani anche i tempi in cui Giolitti introduceva l’indennità parlamentare, di fatto una diaria per garantire che in Parlamento potesse sedere non solo chi era ricco di famiglia ma anche chi era costretto a lavorare per sbarcare il lunario. Ora invale la pratica del politico di professione, il cui unico mestiere consiste nello svolgere una campagna elettorale permanente, allo scopo di venire eletto e poter iniziare dal giorno dopo la campagna successiva. Matteo Renzi ha ogni ragione di essere irritato ma, se avesse davvero voluto sferrare un colpo basso ai colleghi che lo biasimano, avrebbe dovuto firmare una proposta di legge per rendere obbligatorio il doppio lavoro dei parlamentari: può presentarsi alle elezioni solo chi dimostra che, senza politica, non morirebbe di fame.