Chi sorveglia sulla tregua? Le incognite sui negoziati con Putin

Gli accordi ricercati da Starmer e Macron hanno una finalità di pura deterrenza, per scoraggiare qualsiasi nuova iniziativa russa. Le conseguenze di un fallimento dei negoziati andrebbero ben oltre una ripresa dei combattimenti. Si rischia di ridurre drasticamente ogni spazio negoziale, con un serio rischio di allargamento del conflitto

In queste ore, nei contatti fra Washington, Mosca e sperabilmente coinvolgendo l’Ucraina e le cancellerie europee, si sta certamente parlando degli aspetti pragmatici per l’eventuale tregua. Su questa materia temo si faccia confusione tra forze di monitorizzazione, forze di interposizione e forze di garanzia. Le prime e le seconde sono necessariamente fornite da paesi che non abbiano parteggiato per nessuna delle parti in conflitto. Presupposto irrinunciabile è l’accettazione da entrambe le parti di una linea di separazione tra le forze in lotta chiaramente definita, un accordo su una fascia di “terra di nessuno” a cavallo di tale linea (diciamo 5 chilometri sui due lati), in cui abbiano piena libertà di movimento le truppe internazionali.

L’iniziativa deve essere condotta sotto l’egida di un organismo multilaterale, in prima battuta le Nazioni Unite, ma c’è anche l’opzione Osce, che ha nel suo Dna operazioni di questa natura, con regole di ingaggio chiare e che sono molto differenti, a seconda che si tratti di monitoraggio o di interposizione. Nel primo caso lo scopo è di verificare il rispetto del cessate il fuoco e di investigare su eventuali incidenti per procedere all’attribuzione della responsabilità, da far valere in sede diplomatica. Nel secondo caso ci deve essere la facoltà di intervenire per ripristinare la tregua, ove questa venisse violata. E’ palese che entrambe queste opzioni necessitano di un mandato internazionale, con regole di ingaggio ben differenziate e chiaramente definite. La tipologia delle truppe, la loro entità e il loro equipaggiamento differiranno sostanzialmente, e in entrambi i casi dovrà essere costruita una catena di comando e controllo efficace, che abbia la necessaria autonomia ed autorità.



Le forze di garanzia sono tutt’altro: si tratta di truppe di paesi che vengono chiamate da una delle parti precedentemente in lotta e che ha accettato una qualche forma di tregua, fino a un accordo di pace; queste truppe devono essere pronte a intervenire nel caso l’altra parte riprenda le ostilità, partecipando attivamente ai combattimenti. In questo caso non è richiesto nessun mandato delle Nazioni Unite, in quanto si agirebbe in base al principio dell’autodifesa previsto dall’art. 51 della Carta dell’Onu, fino all’intervento del Consiglio di Sicurezza. Risulta subito evidente che quest’ultima ipotesi non ha nessuna possibilità di essere accettata da Mosca, che vedrebbe concretizzarsi proprio la situazione che l’ha dichiaratamente spinta ad attaccare l’Ucraina, quella di avere truppe di paesi Nato immediatamente contrapposte su una linea di confine. Se ne deduce che gli accordi ricercati con determinazione in primis da Starmer e Macron hanno una finalità di pura deterrenza, per scoraggiare qualsiasi nuova iniziativa da parte russa, dando concreta dimostrazione della volontà di frustrare ulteriori ambizioni territoriali, anche a rischio di un confronto militare diretto con la Federazione russa.



Su una delle due prime ipotesi, invece, si potrà negoziare, a patto di trovare la disponibilità di paesi che vogliano impegnarsi, ma bisogna essere ben consapevoli che si sta parlando di numeri molto elevati: basti pensare che in Libano, tra il fiume Litani e la Linea Blu, un’area che è una piccola frazione di quella in questione in Ucraina, Unifil è arrivata a schierare oltre 15.000 militari. Bisognerà anche affrontare e risolvere il problema del finanziamento di un tale contingente, che non si potrà certo far ricadere sui paesi disponibili a farne parte. Purtroppo le esperienze del passato non consentono di indulgere in ottimismi: una precedente missione di monitoraggio dell’Osce nel Donbass è fallita a causa dell’ostruzionismo delle parti in causa (prevalentemente da parte russa, che tre mesi dopo gli accordi Minsk 2 ritirò la propria delegazione dalla Commissione militare mista che doveva verificare il ritiro delle truppe impegnate e dei loro equipaggiamenti) e la missione Onu nei Balcani ha avuto esiti disastrosi (basti citare Srebrenica), a causa di inadeguatezza delle regole di ingaggio e degli equipaggiamenti necessari a condurre la missione, nonché di una catena di comando lenta e inefficace, aprendo la strada ad un intervento diretto della Nato. In estrema sintesi, non ci si può abbandonare all’improvvisazione: le conseguenze di un fallimento andrebbero ben al di là di una ripresa dei combattimenti, riducendo in modo drastico ogni spazio negoziale, con un serio rischio di allargamento del conflitto.

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