Ma il corsetto no. La nuova moda guarda troppo al passato

Con i bustini e le gonne fascianti, per le donne suonerà pure l’ora del ritorno in casa e dei lavori sottopagati? La moda delle “tradwife”

Se all’ultima giornata di sfilate di Parigi non fossero arrivati Anthony Vaccarello con gli abiti spallonatissimi, colorati, dritti e corti per Saint Laurent e soprattutto Miuccia Prada con quei reggisenini a cono della collezione Miu Miu che si intuivano sotto le polo da brava signora borghese e le calze di filo di Scozia a irridere un’idea di femminilità stereotipata, mi sarei rassegnata a scrivere che dall’inizio di questo nuovo anno, cioè dall’elezione di Donald Trump e nonostante tutti i capitali che ha già fatto bruciare ai suoi sostenitori (dall’inauguration day, Bernard Arnault vi ha già lasciato circa 5 miliardi di patrimonio personale, come scriveva Tommaso Palazzi su Milano Finanza qualche giorno fa), nella moda siamo tornati allo stile del 1951.

Fra poche righe scriverò che nel momento in cui si ingabbiano le donne nei vestiti è suonata l’ora del ritorno a casa e dei lavori sottopagati, abbiamo un paio di secoli a provarcelo con assoluta certezza, ma per ora resto sulla notizia e cioè che, in caso non ve ne foste accorti anche dopo aver visto il Festival di Sanremo, i Bafta e la notte degli Oscar, oltre a una buona ventina di collezioni autunno-inverno 2025 presuntamente nuove presentate a Milano e a Parigi, sono ricomparsi i bustini, corti o lunghi come guaine, e tutta una serie di gonne fascianti, di code di tulle, di fiocchi in vita e sul busto modello madame de Pompadour e di quel sistema complesso di pieghe e volute innestate su un qualche tessuto lucente ad armatura rigida che va sotto il nome di stile sirena, un luogo dell’immaginario e purtroppo anche della realtà dove le donne espongono il seno, hanno il punto vita strizzato e camminano a fatica, ancheggiando per poter avanzare. Insomma, pura restaurazione, c’è da chiedersi quando rivedremo le pubblicità degli elettrodomestici con la lady of the house che sforna la torta di mele in tacchi, gonna sexy e capelli sciolti, anzi le abbiamo già viste e la lady presunta è già fra noi, si chiama Meghan Markle e ha appena interpretato un surreale documentario Netflix nel quale organizza una festa per i bambini senza bambini, cucina gli spaghetti all’ammericana, cioè stendendoli in una pirofila coperti di sugo e di acqua, e parla costantemente di marmellate senza mai farne bollire una nel pentolone.

Insomma, ci siamo capiti: la nuova moda guarda troppo al passato ed è purtroppo il derivato ideale di quel gruppo di interesse social ipertrumpiano che sono le #tradwife, le mogli tradizionali che condividono via Instagram ogni giorno pensieri motivazionali genere “non siamo create per lavorare cinque giorni su sette fuori casa, ma sette giorni su sette dentro casa” e assomigliano pericolosamente alle protagoniste del romanzo distopico di Ira Levin della metà degli anni Settanta, “La fabbrica delle mogli”, poi portato al cinema da Nicole Kidman nei primi anni Duemila per la regia di Frank Oz. Mentre ogni giorno queste casalinghe felici spuntano da Tiktok con le loro vite “amazing”, l’aggettivo più ubiquo e più vuoto di questo decennio di parole e idee miserrime, sulle passerelle è ricomparso un esercito di bustini e di maglie “bodycon” dove “con” non sta per il francese “con”, ovvero cretino (al femminile “connarde”, stupendo) e che in effetti ci starebbe, ma per “conscious”, che significa tutto a vista, tutto sottolineato anche nelle t-shirt e i maglioncini con le stecche e il ferretto almeno stampati, in ovvio spregio alla legge della body positivity, in onore della quale ci è stato imposto per anni di bruciare incensi e in effigie anche gli apostati, ma alla quale, ormai è evidente, nessuno ha mai creduto.

A meno di volersi legare in qualche modo addosso un bustino con un girovita di centodieci centimetri in spregio al pericolo per la peristalsi e al buonsenso, che è quanto ha fatto la regista Houda Benyamina nel film con le moschettiere molto sveglie di cui anche i critici più benevoli in Francia hanno scritto peste e corna (a proposito, non abbiamo più notizie di James Bond al femminile che sembrava cosa fatta, visto il giro del fumo negli Usa devono aver desistito, per abbattere gli stereotipi non è sempre necessario abbattere quelli vecchi, bisogna sforzarsi e inventarne di nuovi, possibilmente non grotteschi) è chiaro che lo scopo ultimo di questo irritante ritorno delle stecche non sia solo di esaltare quell’idea di femminilità che Prada sbeffeggia e sabota, ma di sottolineare quel modello di bellezza magra ma “con tutte le cosine nei punti giusti”, come dicevano i nostri nonni, che rappresenta un’altra picconata al woke e al devi accettarti come sei.

E’ chiaro che nessuno accetti quel che gli ha dato il buon Dio (i wokisti userebbero il verbo “assegnato”), altrimenti i filtri Instagram avrebbero smesso da tempo di vendere i loro pacchetti di abbonamento annuale e il cosiddetto comparto “benessere”, l’aggettivo sotto il quale abbiamo nascosto l’aspirazione di tutte alla bellezza da milioni di follower, non godrebbe di dati di crescita del 7-10 per cento all’anno.

Quando, a fine gennaio, criticai aspramente la sfilata couture di Schiaparelli, credevo si trattasse di un esercizio di stile del designer, Daniel Roseberry che, in quanto americano con la fissa della riuscita sartoriale all’europea, aveva voluto misurarsi almeno una volta con i modelli che anche la Mattel riproduceva in miniatura per le Barbie prima maniera, per esempio l’abito “Solo in the spotlight”, ispirato a un modello di Marcel Rochas, un fourreau con trionfo di tulle e organza attorno alle caviglie, che peraltro lui stesso aveva riprodotto per Margot Robbie in occasione di una presentazione del blockbuster della scorsa stagione, il film manifesto del femminismo di quarta generazione che avrebbe dovuto insegnare alle nostre figlie che mai più avremmo voluto vestirci come Barbie e vivere come lei nel migliore dei mondi possibili. Mi sbagliavo.

Chi avrebbe immaginato che nell’arco di tre settimane, quelle architetture che non valorizzavano nemmeno le modelle – molti commenti negativi erano serpeggiati lungo la passerella al passaggio di Kendall Jenner con la ciccetta che le usciva dalla schiena inguainata, perché anche le ragazze più favolose di oggi non hanno più le forme, le rientranze e le sporgenze dell’epoca nella quale questi abiti erano stati pensati e oltre ad avere le cosine al posto giusto fanno sport e dunque hanno muscoli e punto vita diversi – sarebbero percolati in ogni manifestazione possibile e che dunque Roseberry aveva assolutamente ragione. Poche settimane fa, alla serata degli Academy Awards, la ragazza del momento Ariana Grande ha stretto tutte le sue ossa delicate nella riproduzione Schiaparelli di un celebre modello di Balenciaga del 1950, con bustino, ampia baschina rigida e gonna di tulle di seta allestita attorno come una tendina; un mese fa, lungo la scala del Festival di Sanremo sono scese quasi tutte le cantanti inguainate in abiti avvolgenti, con le piume e senza, tutte delicatamente impacciate e bisognose di aiuto maschile per non rotolare a terra, tutte concentrate in quel “totale controllo di sé” che la sociologa femminista marocchina Fatima Mernissi descriveva all’inizio di questo secolo come non troppo diverso da quello imposto dalla cultura islamica negli scopi: si è svestite, sì, ma in fondo si continua a essere prigioniere.

Non è la prima volta che il busto torna a fare la propria comparsa dopo che Paul Poiret ne aveva decretato la fine nei primissimi anni del Novecento fra gli applausi dei medici o, per meglio dire, dei medici che non ritenevano corretto che la “delicata complessione femminile” andasse sostenuta e accompagnata dall’uso del busto, ma che anzi questo provocasse negli anni non solo lo spostamento degli organi interni, ma l’insorgenza di tutte quelle delicatezze che minavano la salute in via definitiva. Abbiamo rivisto le guaine, in verità anche maschili, alla fine degli anni Trenta (ricordate la famosa battuta nella scena dell’atelier di “Donne” in cui Joan Crawford e Norma Shearer, pronte a sbranarsi attorno alla proprietà del maschio Stephen, scacciano la modellina che gira per i camerini pubblicizzando il “busto senza stecche”?) e in misura massiccia, politica, subito dopo la Seconda guerra mondiale. Sono passati appunto settantacinque anni da quando Christian Dior aveva rimesso il busto e le gonne ampie e pesanti alle donne facendo infuriare Coco Chanel (si era infuriata dalla Svizzera, perché dopo l’interrogatorio per collaborazionismo era scappata da Parigi e non vi sarebbe tornata fino al 1954), ma pare che tutte le ragazze non vedano l’ora di chiudercisi nuovamente dentro. Perfino una femminista dichiarata e molto attiva, concretamente ed efficacemente, come Maria Grazia Chiuri, ha costruito panier delicati e deliziosi per la couture Dior e ancora gabbiette e alte cinture per la collezione pret-à-porter presentate la scorsa settimana (l’annuncio dell’ingresso di JW Anderson alla direzione creativa è atteso per fine marzo, un’agenzia di celebrities ha già fatto sapere in giro che il suo team ha contattato moltissime star per la sua prima sfilata, con speciale attenzione per quelle di solito ingaggiate dal gruppo concorrente, Kering); bustini da Antonio Marras, stecche e piccoli panier da Giuseppe Di Morabito, il nuovo enfant gaté della moda italiana sostenuto da Roberta Benaglia di Style Capital, che nel giro di un mese ha vestito Clara e Lady Gaga (i suoi abiti ricordano molto da vicino quelli tutti fili di perline di Paul Iribe per le dive degli Anni Venti, ma hanno i fianchi posticci della corte di Luigi XIII).

Solo ad Haider Ackerman, alla sua prima sfilata per Tom Ford, è riuscito il miracoloso equilibrio di disegnare una collezione sexy senza ovvietà e uso di attrezzi destinati a modificare il corpo e la sua apparenza e soprattutto senza guardare costantemente a mode, epoche, storie, società passate. Sia chiaro, la seduzione del vissuto ha intrigato epoche anche lontane: all’incoronazione di Luigi XVI, che i francesi speravano avrebbe portato a un’èra di pace modello “Parigi val bene una messa”, i sarti e le modiste di Parigi lanciarono una moda ispirata ai ritratti di Enrico IV e della regina Margot, i guardinfante c’erano ancora, si trattava solo di rivederne le forme e di allungare le punte dei bustini. Adesso, però, in questa tendenza molto umana a guardarci alle spalle si è inserito l’uso commerciale del cosiddetto “heritage”, cioè il riutilizzo costante dei “codici di archivio”, che si è tradotto in una riproposizione di cose vecchie, non di rado fuori tempo, evidenza che si è prodotta per esempio nella sfilata, anche questa tutta giustacuori e bustini e spalle sormontate, di Sean McGirr per McQueen, uno stilista che di suo sarebbe molto bravo ma che per ragioni misteriose, anzi chiarissime, è costretto a “reinterpretare” gli abiti di un genio morto suicida quindici anni fa che, duole dirlo, non vanta più la “community” che i vertici credono e alle nuove generazioni non dice niente.

Bisognerebbe che Kering trovasse il coraggio di chiudere il brand e, se davvero crede in un giovane, di investire nella sua creatività, invece di imbrigliarlo nei fantasmi di una storia passata. Una quindicina di anni fa, per un Questionario di Proust sottoposto ai maggiori designer di quel momento, alla domanda “qual è la tua decade preferita nella moda”, la risposta di gente come Karl Lagerfeld, Valentino fu la stessa: “Quella che viviamo adesso”. Lagerfeld, allora a capo sia di Fendi sia di Chanel, fu anzi più preciso: “Questo inizio del XXI secolo mi sta benissimo”. Pochi anni prima, Yves Saint Laurent aveva detto che il capo che gli sarebbe piaciuto inventare erano i jeans, “il capo più spettacolare, più pratico, più nonchalant (fatto di) significato, modestia, sex appeal, semplicità: tutto quello che vorrei possedessero i miei vestiti”. Nessuno, fra quei designer che hanno cambiato il mondo, citò gli anni Cinquanta delle guaine.

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