La Juventus punterà di nuovo su Antonio Conte? Il Milan su Massimiliano Allegri? Chissà. Sicuramente c’è troppa nostalgia in Serie A. Se il ricambio generazionale in panchina latita, per attestare la bontà di Azzurro nei campi ci vorrà ancora qualche mese
C’è forse solo una cosa più sconcertante della crisi juventina, già di suo un pozzo senza fondo. E sono i (meme) nostalgici di Massimiliano Allegri, i lazzi “a corto muso” della rete verso il cosiddetto Progetto: non tanto per la cosa in sé, quanto per lo spirito di restaurazione che emanano. Come nel 1990-1991, quando Gigi Maifredi dalla panchina del Bologna fu scelto da Luca di Montezemolo per cambiare volto a una società che aveva appena vinto due trofei: non si qualificò manco alla coppa Uufa, e da allora è stato saldamente in testa alla graduatoria degli incubi per la tifoseria bianconera. La stagione successiva, l’Omone di Lograto tornò in Emilia e lasciò spazio appunto alla Restaurazione, che allora aveva le sembianze dell’inattaccabile Giovanni Trapattoni, il quale rimise in pista la squadra e la preparò al glorioso futuro di Marcello Lippi, uno come lui.
Questa è “La nota stonata”, la rubrica di Enrico Veronese sul fine settimana della Serie A, che racconta ciò che rompe e turba la narrazione del bello del nostro campionato che è sempre più distante da essere il più bello del mondo
Stavolta a Torino potrebbe planare di nuovo l’insoddisfatto Antonio Conte, che la zebra ce l’ha tatuata addosso, mentre il Milan starebbe facendo più di un pensiero proprio ad Allegri: ecco cosa stona, l’eterno ritorno del gol di Sulley Muntari nel 2011, history repeating, retromania dappertutto, una volta constatato che la strada al nuovo è impervia e perigliosa, oltre che necessitante di tempo (e a nessuno va di concederlo, altrimenti quando fatturano i nudi proprietari?). Cercando le tracce della fine della società occidentale così come conosciuta, si arriva anche a questo cumulo di stanchezze in serie, tutte differenti come quelle di ciascuna famiglia disfunzionale.
Eppure i modi per evitare lo sconforto ci sono, e passano da qualche piccola o grande rivoluzione nel mindset. Liberarsi dal dedicare tempo e spazio alle presunte grandi in agonia, ad esempio: riscoprire nell’Udinese il significato di un’inattesa rivelazione (fase difensiva efficace, tutti a raddoppiare) o nel Genoa quanto mai ermetico la sfrontatezza fabregasiana di chi schiera una ulteriore punta sebbene stia vincendo. Lo fanno qui, lo fanno ora. Come l’immensa dignità di un Venezia povero ma bello, tre porte sbarrate contro gli attacchi di Atalanta, Lazio e Napoli: dal Como in giù tutte hanno subìto più gol dei lagunari, eppure la classifica – unico parametro – dice altro.
Più che arbitri impettiti a difendere la propria lesa maestà, e strumenti non interpretabili a far fischiare loro i fuorigioco altrimenti più discutibili, forse a questo calcio farebbe bene un duello in stile Federica Brignone e Sofia Goggia, quando l’aspra rivalità va a vantaggio di tutto l’indotto. E questo è l’anno buono, perché se il campionato ha un teorico padrone, certo questi saldo non è: anzi continuamente insidiato. E per entrare in Europa dalla porta principale stanno sgomitando in tante, tra cui proprio le ex big in crisi.
Oggi gli allenatori paiono impegnarsi di più nel saper comunicare le proprie decisioni e far conoscere gli aspetti tattici al pubblico, come Paolo Vanoli mentre disserta di Sebastian Walukiewicz, “dà l’opportunità in quel ruolo di avere un difensore in più, e costruire in maniera diversa, a tre. Oggi i terzini ti danno soluzioni di gioco, i braccetti sono determinanti in una difesa a tre perché creano superiorità, i terzini a quattro sono quelli che ti permettono di costruire a tre, sono pedine importanti”. Non lo si nega, però con tutte le soluzioni balza all’occhio che almeno tre partite l’ultima settimana (Empoli-Roma, Liverpool-Paris St.Germain, Atlético-Real Madrid) sono state decise da un gol segnato giusto all’inizio del match e difeso fino alla fine, come se fosse impossibile ribaltarla o pareggiarla.
Manco a dirlo, il villain della settimana è però Dele Alli, tornato dopo due anni a calciare un pallone professionistico nella massima serie, e rimasto in campo a San Siro per soli dieci minuti, dall’ingresso nel terreno di gioco all’espulsione per aver impresso i tacchetti nella pelle e nelle ossa di Ruben Loftus Cheek: una storia di declino e redenzione tipica del cinema americano (cfr. “The wrestler” con Mickey Rourke), dove le star sprofondano nel tunnel e appena si intravede la luce arriva il colpo finale. Nonostante le nobili difese di avversari come lo stesso Loftus e Kyle Walker, il quale ha disputato l’incontro a battagliare lungo la fascia contro un Álex Valle di quindici anni più giovane, effetto “il vecchio e il bambino” tra i giusti fischi dello stadio alla fine del primo tempo.
Se di quali siano i caratteri di un decennio si possa parlare solo dopo cinque anni dall’avvio dello stesso, a dicembre sarà più chiaro se il cambio generazionale in corso tra i calciatori di Serie A sia effettivo o interlocutorio, fausto o recalcitrante. E quindi, più in là, rispondere al quesito se Pietro Comuzzo o Luca Marianucci, per fare solo due nomi, valgano davvero le cifre astronomiche che il Napoli pare sia stato disposto a pagare – o verosimilmente sarà disposto a pagare a giugno – dopo sole pochissime partite tra i grandi e nessun test esterno. La questione riguarda anche Lucio Spalletti: i quarti di finale di Nations League – giovedì sera a Milano contro la Germania, ritorno domenica a Dortmund – diranno molto di cosa aspettarsi nel futuro breve da una Nazionale che stecca l’appuntamento mundial da dieci anni. Tanto da farci ormai l’abitudine, se qualcuno lo dimentica.