Cantò il blues come nessun altro, e la sua tecnica alla sei corde fece scuola. Ma fu anche un eccezionale autore di canzoni, negli anni Trenta in cui i suoi colleghi soprattutto reinterpretavano la tradizione. Due musicologi illuminano i misteri nella sua biografia
Chi ci ha provato lo sa: imbracciare per la prima volta una chitarra è doloroso. Le corde basse sono spesse, pigiarle a dovere per ottenere un suono pulito, e non un fastidioso ronzio, è una fatica. Le corde alte sono sottili, tagliano la carne dei polpastrelli, e se per errore si infilano sotto un’unghia si vedono le stelle. Ma per acquistare una chitarra oggi si va in uno di quei super store della musica, boutique dello strumento, dove trovare quello che più si adatta alle proprie esigenze. E arriverà già perfettamente “settato”, ovvero con le corde disposte a un’altezza rispetto al manico che sia confortevole per lo stile che si vuole adottare.
Immaginate ora il giovanissimo Robert Johnson nella piantagione di Robinsonville a metà degli anni Venti, alle prese con il “diddley bow”. Non una vera chitarra, ma un’unica corda di metallo tesa su un’asse di legno, o addirittura sulla parete della baracca, con al limite una bottiglia o un barattolo incastrato sotto la corda stessa, per amplificare il suono. Un cominciamento tra mille ristrettezze, ma la musica di Robert, le sue canzoni, la sua maestria con la chitarra e la sua voce sarebbero entrate nella leggenda. Rimette in prospettiva la frustrazione che affligge i principianti di oggi.
Eppure, a dispetto della notorietà della sua musica, la vita di Robert Johnson è rimasta avvolta nel mistero per decenni. E in assenza di informazioni biografiche certe, si è creato il mito di un’origine soprannaturale per l’eccezionalità della sua arte. Robert, ventenne di scarso talento, sarebbe scomparso per un anno per poi riapparire come il chitarrista più dotato del Delta del Mississippi. Cos’era successo? Aveva incontrato il diavolo a un crocicchio e gli aveva consegnato la sua anima in cambio della perizia con lo strumento.
Raccontare la storia vera di Robert Johnson non deve servire a dissipare il fascino oscuro della leggenda. E nemmeno a restituire un “lato umano” che quando si parla di artisti è sempre meno interessante del “lato sovrumano”, vero o inventato che sia. Ma serve a ricordare che il genio è nulla senza la cultura, la determinazione e il sacrificio. Per scoprire questi aspetti nella parabola del bluesman bisogna leggere “Il diavolo, probabilmente” (sì, il titolo è fuorviante), la biografia tradotta da Marco Bertoli per il Saggiatore che hanno scritto Bruce Conforth e Gayle Dean Wardlow. I due musicologi hanno passato una vita a raccogliere testimonianze di prima mano da chi Robert Johnson l’aveva conosciuto direttamente o dai racconti di parenti, amanti e compagni di vagabondaggio. Tutto messo sapientemente a confronto con le altre testimonianze, male informate o lacunose, che hanno preparato il terreno per la storia del talento di origine diabolica.
Emerge un affresco del Delta del Mississippi tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso in cui voodoo, razzismo e depressione – economica ed esistenziale – si mescolano a voglia di riscatto e fermento culturale. L’anima venduta al diavolo è una metafora del talento grezzo, che spunta fuori dall’inevitabile assorbimento di influenze e tradizioni senza alcun tipo di mediazione. Ma la storia di Johnson non è questa: innanzitutto perché il piccolo Robert va a scuola. Non per molto e non è chiaro con quali risultati, certo, ma impara a leggere e scrivere. La frequenta perché da bambino passa degli anni a Memphis, Tennessee, lontano dalle piantagioni: la madre Julia Majors lo scarica lì dal suo ex marito Charles Spencer dopo averlo avuto l’8 maggio 1911 – giorno più giorno meno – con un oscuro Noah Johnson, presto scomparso senza lasciare traccia. Di fatto, il piccolo Robert si fa chiamare Spencer. Rimarrà per sempre legatissimo a quella famiglia adottiva, sarà una delle sorellastre a conservare gli unici due ritratti fotografici esistenti del musicista. A Memphis Robert non può far altro che frequentare la scuola perché in quegli anni la città è il campo di battaglia di Julia Hooks, massima fautrice dell’istruzione dei neri. E a Memphis i giovani afroamericani hanno l’occasione di assistere a spettacoli itineranti con musica e numeri circensi.
Città e campagna. Forse non esiste dialettica più potente di questa. E Robert la incarna tutta, a differenza di molti bluesman suoi contemporanei, prodotti esclusivi di un humus culturale o dell’altro. Da Memphis viene strappato appena adolescente dalla madre ricomparsa, che lo porta nella piantagione con il suo nuovo compagno. Il tipo, l’analfabeta Dusty Willis, lo impiegherebbe nella raccolta del cotone, ma Robert non ne vuole sapere: ha già iniziato a mettere le mani sui primi strumenti musicali, il pianoforte, l’armonica, il “diddley bow”, e non ha altro per la testa che la musica. Dusty lo picchia, lui scappa, torna a Memphis o si mette a girovagare per il Delta. In un’occasione va nel villaggio di Hazlehurst, dove è nato, in cerca del padre biologico, senza risultati. Nel frattempo però ne adotta il cognome – odia Willis.
La città lo segna in modo indelebile, gli accende la fantasia, gli apre la mente. Non solo Memphis: “Sweet Home Chicago”, il blues più celebre suonato dai Blues Brothers, è una canzone di Robert. Ma attenzione: la musica che decide di suonare è quella della campagna, il blues rurale. Non perché è l’unica che conosce, ma perché gli permette di esprimersi autenticamente. E per capire la profondità come autore di Robert Johnson bisogna sapere che non fu un “iniziatore”, anzi: in qualche modo, dal punto di vista delle correnti musicali del tempo, fu l’apice e il momentaneo canto del cigno di un genere che passava di moda. Quando registra le sue canzoni in due sessioni entrate nella storia e nel mito – San Antonio nel ’36 e Dallas nel ’37 – ormai iniziava ad andare per la maggiore un blues urbano suonato da complessi, con chitarre che cominciavano a elettrificarsi. Tanto che, notano Conforth e Wardlow, se il discografico H.C. Speir “fosse stato uno attento soltanto alle ultime mode, forse Robert non avrebbe mai fatto un disco”. Johnson vivente, solo uno dei suoi singoli ottiene un moderato successo commerciale: “Terraplane Blues”, che però guarda caso non è dedicato alla raccolta del cotone, ma all’automobile Hudson che faceva sognare di donne, fughe e una vita lontano dai campi.
Il punto è che Robert è consapevole della sua identità artistica, fatta di chitarra acustica e voce, in solitaria. L’elettrica la prova pure, ma non fa per lui. Tutto ciò emerge nelle registrazioni, 42 in tutto che però corrispondono a soli 29 titoli originali: di alcuni brani esiste una “take 1” e una “take 2”. Ebbene, nella maggior parte dei casi, fra il primo tentativo e il secondo le differenze sono minime: questo perché Robert ha ben chiara la struttura di ciascuna sua composizione e la esegue sempre allo stesso modo. Considera se stesso un autore, non un esecutore che rivisita brani tradizionali in modo sempre diverso, come invece facevano gli altri bluesman rurali. Robert era questo, ma anche “un prodotto della tecnologia del suo tempo. Le canzoni che sentiva alla radio o su disco erano uguali ogni volta: perché le sue avrebbero dovuto essere diverse?”.
A proposito di radio, dietro alle registrazioni esiste l’attività di Robert Johnson musicista itinerante, al corrente delle canzoni che vanno di moda. E’ in grado di eseguirle tutte alla perfezione, spesso dopo un solo ascolto, ricorda stupefatto chi lo ha conosciuto. Così il giovane Robert sfugge alle grinfie di Dusty Willis e si emancipa dal lavoro nei campi, suonando alle feste e nelle bettole, e coltiva le sue due più grandi passioni insieme alla musica: il whisky e le donne. Uno spiraglio su queste performance lo apre “They’re Red Hot”, un ragtime, tra i pochissimi brani registrati da Johnson a non seguire la struttura standard del blues in dodici battute. Non solo: notano Conforth e Wardlow che “anche dal punto di vista del testo la canzone è un unicum per Robert, dal momento che non contiene praticamente un solo verso che non si possa ritrovare in decine di altri blues e canzoni popolari”. Un pezzo umoristico e ballabile, di quelli per cui si veniva ingaggiati nei locali e alle feste.
Ma l’anima di Robert si mostra nuda altrove. L’anima di un ragazzo a cui, nemmeno ventenne, la prima moglie muore di parto. Lui non c’è, è in giro a suonare il blues, la musica del diavolo, e per questo sarà colpevolizzato dalla famiglia di lei. L’anima di un ragazzo che si invaghisce di un’altra, la mette incinta e questa volta il figlio nasce, ma a Robert verrà impedito di vederlo per tutta la vita. Sempre il blues lo marchia come feccia da tenere lontana. L’anima di un ragazzo che, ingaggiato dai coniugi Ernie e Marie Oertle per registrare un disco, deve fingersi il loro chauffer: se un’auto fosse stata sorpresa in Texas con un nero al posto del passeggero, il bianco alla guida sarebbe stato aggredito come “nigger lover”. L’anima di un ragazzo che, proprio la sera prima delle registrazioni, viene arrestato per vagabondaggio e malmenato in caserma.
Nascono così canzoni di peccato e redenzione, di fuga senza meta, di smodato impulso sessuale. La sua tecnica con la chitarra fa scuola – slide, corde pizzicate senza plettro, e il basso boogie che diventerà segno distintivo di tutto il blues a venire. Spesso suona di spalle, per non rivelare i segreti delle sue dita. La sua voce non è cavernosa come quella dei suoi maestri Charley Patton e Son House, ma è più sofisticata, graffia all’occorrenza e in falsetto raggiunge note angeliche più che diaboliche.
“Come on in My Kitchen” dice del calore che si devono due solitudini quando fuori piove. Ricorda il chitarrista d’accompagnamento Johnny Shines che una volta a Saint Louis “la fece lenta, con molta passione, e alla fine mi accorsi che nessuno parlava. Piangevano tutti, uomini e donne”. In “Love in Vain” canta sommessamente dei versi tristi, un amore che parte, con la potente metafora del treno che abbandona la stazione. Poi ci sono le donne fedifraghe di “Dead Shrimp Blues” e “I Believe I’ll Dust My Broom”, dove si menziona l’uso della scopa per liberarsi di un visitatore importuno. Polvere magica spazzata via – un’immagine ricorrente nel voodoo. Le canzoni di Robert sono ricche di riferimenti a queste pratiche tradizionali, impossibili da decifrare senza l’informatissima guida di Conforth e Wardlow. Poi ci sono anche le donne gentili di “Kind Hearted Woman Blues” e “When You Got a Good Friend”. E la puntina arrugginita di “Phonograph Blues”, “di contro alle vanterie di potenza sessuale tipiche dei bluesman, si direbbe voglia alludere all’impotenza” – i discografici ne restarono così perplessi che, Robert vivo, non pubblicarono mai la canzone.
Poi c’è il crocicchio, certo. Ma altro che patto con il diavolo: in “Cross Road Blues” Robert arriva all’incrocio fra due strade, cade in ginocchio e chiede al Signore: “Abbi pietà, salva il povero Bob, ti prego”. Poi cala il sole, e il riferimento è al coprifuoco praticato nel sud della segregazione razziale. “Negro, che la notte non ti colga qui”, ammonivano i cartelli. Alla fine Robert implora di correre dal suo amico Willie Brown per dirgli che lui sta affondando, “I’m sinkin’ down”. La rivisitazione di questo brano consacrerà Eric Clapton come dio della chitarra.
Poi c’è il diavolo, certo. Ma a dispetto di chi vuole trovare in “Me and the Devil Blues” una prova del sulfureo patto, “qui il tema demoniaco si direbbe più una strizzata d’occhio ai molti blues d’identico argomento che un’ammissione di consorteria con le forze del male”. Umorismo invece assente nel capolavoro di Robert Johnson, “Hell Hound on My Trail”, il cane infernale alle calcagna del dannato. Un’esecuzione che lascia attoniti per l’intensità del falsetto. Il terrore nella voce è palpabile, la chitarra slide vibra e accompagna il verso delle foglie che tremano sul ramo, “the leaves tremblin’ on the tree”. I peccati di una vita lo perseguitano perciò “I got to keep movin’ / blues fallin’ down like hail / and the days keep on worryin’ me / there’s a hellhound on my trail” (“devo continuare a muovermi / il blues cade come grandine / lo scorrere del tempo non mi dà tregua / ho un segugio infernale sulle mie tracce”). Non ci sono elementi testuali nelle canzoni di Johnson a suggerire il patto con il diavolo, ma questa registrazione è perturbante tanto da renderlo realistico.
In effetti, prima di diventare un tale virtuoso, Robert era veramente sparito per un anno. Ma a diffondere la storia che in precedenza non fosse capace a suonare era stato Son House: una delle voci più intense del blues del Delta, che però aveva forse intuito il potenziale del giovane e voleva screditare un concorrente piuttosto che alludere a forze sovrannaturali. In realtà Robert si esibiva con un certo profitto già prima di quell’anno in viaggio sul quale Conforth e Wardlow fanno luce: in cerca del suo padre biologico, trovò Ike Zimmerman, un personaggio descritto da chi lo conobbe come un chitarrista eccezionale, ma che non lasciò nessuna registrazione. La figlia Loretha Zimmerman ricorda come Robert imparò moltissimo da Ike, e come spesso i due andavano a esercitarsi… in un cimitero, seduti sulle lapidi. Forse per non disturbare in casa, ma certo la cosa non aiutò a dissipare la storia del patto con il diavolo.
La parabola di Robert Johnson si conclude pochi anni e molte peripezie dopo le registrazioni: avvelenato nel ’38 da un marito geloso della moglie, stregata dal formidabile performer. Aveva ventisette anni. La sua influenza sul blues e sul rock è incalcolabile, ma legarlo esclusivamente al genere sarebbe riduttivo. Johnson è un cantautore e i suoi eredi sono gente come Tom Waits e Nick Cave, tutti coloro che mettono in musica il lato storto della vita.