La Sicilia del “Gattopardo” è come la Parigi di “Emily in Paris”, per la distanza dalla realtà e l’accumulo di luoghi comuni. Non si sa il numero degli spettatori ma sembra che tutto lo sforzo produttivo non sia stato premiato
E’ arrivato il Gattopardo, ripulito e lucidato da Netflix. Dopo tanti annunci e lanci pubblicitari, non sembra che gli sforzi siano stati premiati dal consenso popolare. Non se ne parla abbastanza per giustificare lo sforzo produttivo, sia pure distribuito su quasi 200 paesi. Netflix non usa rivelare il numero degli spettatori, e inoltre vale come “vista” una porzione ridicola dell’opera (per “The Irishman” di Martin Scorsese bastavano una ventina di minuti, se non ricordiamo male). Non è che uno debba mandare giù una torta intera per giudicare la bravura del cuoco – da una fetta si può capire se la torta risulterà indigesta. Su questo, Netflix ha ragione: lo spettatore sceglie il programma, si appisola dopo dieci minuti, se la moglie non protesta il programma è considerato visto e apprezzato.
Abbiamo letto e amato il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, visto e amato il film di Luchino Visconti. (Qui, spazio libero perché i dirigenti e produttori di Netflix possano dire: “Ma non è per lei, che invece di imparare il merletto ha studiato”). Nessuno vi ha mai sussurrato all’orecchio quel che i pettegoli letterari dicono dei capolavori? “Non invecchiano, gli sciagurati; sono sempre pronti per un pubblico nuovo”. Se vogliamo raccontare la Sicilia di metà Ottocento a milioni di spettatori nel mondo, qualcosa di universale ’sto Gattopardo lo dovrà pure avere. La Sicilia del “Gattopardo” in versione Netflix (diretta dal regista inglese Tom Shankland) è come la Parigi di “Emily in Paris”, per la distanza dalla realtà e l’accumulo di luoghi comuni. A Parigi tutti parlano inglese, e alla villa in campagna di Donnafugata parlano italiano. Appena prima dell’Unità d’Italia.
Le guardie a difesa della città conoscono il discorso “Noi fummo i gattopardi, gli altri saranno gli sciacalletti e le iene…”: il principe di Salina sparla dei padroni che verranno. Lo salutano, e dicono “fate passare il gattopardo”, per chi ancora non avesse capito. E pensasse, nel dormiveglia, a un documentario con gli animali. Entra Concetta, la figlia preferita del principe, educata per il suo avvenire da fanciulla maritabile. Dovrebbe tenere gli occhi bassi, ma niente da fare. La Concetta di Netflix discute con il principe&genitore, e anzi è la prima a rivolgere la parola ad Angelica, con cui giocava da bambina. La fanciulla è “molto cambiata, e non in peggio…”, dice il principe davanti a tanta bellezza vestita di rosso diavolo. Tancredi intanto la spoglia con gli occhi, anche con quello ferito e bendato. Gattopardo 2.0, si affrettano a dire tutti. Per le giovani generazioni. Quella di Kim Rossi Stuart, per esempio, nato nel 1969: non ha letto il romanzo né visto il film. Scritturato per la parte, poteva rimettersi in pari un pochino.