Valori ed emozioni volatili hanno sostituito senso del reale e concetti politici razionali. Ma cercando il meglio di un’Europa disarmata, i benintenzionati preparano il peggio. Lo spettro, con varianti, del 1938
Se tanta gente di buona stoffa e benintenzionata, più qualche benpensante professionale e conformista, ha manifestato a Roma sbandierando il Manifesto di Ventotene invece che il piano ReArm Europe, qualcosa vorrà dire. Vuol dire che volatili valori ed emozioni, diversi nelle sfumature “plurali” ma compatibili tra loro, hanno sostituito senso del reale e concetti politici razionali. D’altra parte i sondaggi dicono che il consenso alla battaglia dell’Ucraina dopo tre anni è sceso al 35 per cento nell’opinione pubblica. In un certo senso, Trump era nella lista degli oratori di Piazza del Popolo. Accordarsi con Putin, e sacrificare la Cecoslovacchia del XXI secolo, come fecero Francia e Inghilterra a Monaco nel settembre del 1938, è il sostrato consolatorio e rassegnato di un europeismo fiacco, simbolico, indisponibile alle dure scelte necessarie in fatto di armi e quattrini. Cercando il meglio di un’Europa disarmata il cui progetto è una nozione illusoria di pace per il nostro tempo, i benintenzionati preparano il peggio.
Il pacifismo ostentato e travestito da realismo del nuovo sceriffo americano non è così impopolare come sembrerebbe anche tra i buoni della sinistra italiana “plurale”. Se non siamo ancora alla svendita totale è perché Starmer non si comporta da Chamberlain e Macron non prende l’abito di Daladier, mentre il piano von der Leyen funge da piattaforma anche per la Germania democratica che Merz, Scholz e i Verdi sembrano intenzionati a schierare con le armi giuste dalla parte giusta, cioè la pace giusta e duratura di Zelensky invece che il premio strategico allo zar postsovietico di Mosca.
Oggi, diversamente che negli anni Trenta, i capi europei che contano sembrano più consapevoli dei rischi dell’inazione e della disponibilità verso la prepotenza di quanto lo siano le società democratiche europee, mettono la produzione di blindati e tecnologie belliche al posto delle aspirazioni valoriali generiche del cittadino medio di Piazza del Popolo, riuniscono gli stati maggiori e cercano di imporre garanzie armate laddove i popoli sognano ideali federalisti disincarnati come consolazione spirituale e sostegno del loro benessere. Quanto potrà durare questo divario tra i capi dei governi e i nuovi tribuni dell’appeasement, anche ben dissimulati nell’idealismo di Ventotene, non si sa.
A leggere il magnifico saggio di Maurizio Serra sull’Europa che cedette a Hitler, “Scacco alla pace”, il dubbio su chi l’avrà vinta, tra il realismo che si arma e il realismo sognatore che si rassegna, è forte. “Quando le democrazie si adagiano, perché mai i loro capi dovrebbero agire diversamente? Esse hanno sempre ciò che meritano”, scrive Serra a pagina 507 della sua rassegna della crisi di Monaco. E aggiunge: “Questo non assolve né la Francia dall’aver rinnegato i suoi obblighi verso la nazione che aveva contribuito più di tutti a creare nel 1918-1919, né l’Italia mussoliniana dall’aver manovrato cinicamente tra le potenze per scegliere, all’ultimo momento, l’alleanza che sembrava offrirle le migliori opportunità di successo.
L’interrogativo si estende così, al di là dei calcoli dei personaggi in scena e delle loro gravi responsabilità, al clima morale degli anni Trenta, caratterizzato da una sorta di fallimento incombente: quello di un’Europa incapace di ritrovare la propria identità e rigenerare le proprie energie”. Il fatto è che dopo Monaco la popolarità di Chamberlain e Daladier e Mussolini, autori della resa a discrezione al Terzo Reich, ebbe un picco. La pace per il nostro tempo fu immediatamente seguita dalla guerra più devastante del secolo, e dal sacrificio dell’Europa, ma vinse facile la battaglia dei cuori, delle emozioni e dei valori.