Il governo sembra non rendersene conto della portata dei dazi di Trump, da un lato perché con Lollobrigida sminuisce l’impatto dei dazi di Trump, dall’altro perché è contrario all’accordo di libero scambio con il Mercosur
Il giorno prima che Donald Trump annunciasse i dazi del 200 per cento sui vini, come ultimo atto della guerra commerciale scatenata contro l’Unione europea, il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida aveva dichiarato a WineNews che “non dobbiamo essere terrorizzati dai dazi”, in quanto negli Stati Uniti “i prodotti premium continueranno a essere acquisiti da coloro che li scelgono, i quali li scelgono non sulla base del prezzo basso ma del prezzo giusto”.
In realtà, i produttori sono realmente terrorizzati. E non per una reazione irrazionale, ma sulla base di alcuni precedenti che dimostrano quanto il mercato internazionale dei vini e degli alcolici sia sensibile alle tariffe: i dazi del primo mandato di Donald Trump, la guerra commerciale Australia-Cina e gli effetti del Ceta con il Canada.
Va innanzitutto segnalato, come ha scritto sul Foglio Carlo Stagnaro sulla base dei dati dell’Unione italiana vini (Uiv), che la quasi totalità dell’export italiano non riguarda “prodotti premium”: l’80% è di vini di categoria “popular”, cioè in una fascia di prezzo fino a 4,18 euro al litro franco cantina; poi c’è un 17% di segmento “premium” con prezzo medio di 8,80 euro al litro; mentre appena il 2% riguarda vini di categoria “luxury”, che dovrebbero avere una domanda meno elastica al prezzo. Ciò vuol dire che il 98% dell’export rischia di essere colpito duramente dai dazi di Trump (d’altronde il prezzo medio di tutto l’export verso gli Usa è di 5,35 euro al litro).
Ieri c’è stata una telefonata fra il Commissario europeo al Commercio, Maros Sefcovic, e il suo omologo statunitense Howard Lutnick: “C’è molto lavoro da fare, ma restiamo concentrati ed esploriamo i modi migliori per andare avanti nella giusta direzione”, ha detto Sefcovic. Una chiamata per abbassare la temperatura, insomma, ma senza particolari progressi.
Ma che impatto possono avere i dazi di Trump sui vini e gli spiriti italiani? Ovviamente non ci sono dei dati precisi, ma Federvini segnala tre casi che mostrano quanto sia elastica la domanda rispetto a misure tariffarie analoghe. Il primo caso è quello del primo mandato Trump. Nel 2019 gli Stati Uniti, nell’ambito della lunga controversia tra l’americana Boeing e l’europea Airbus, imposero dazi su 6,7 miliardi di prodotti europei tra i quali la categoria “liqueurs & cordials” su cui venne applicata una tariffa del 25%. Per liquori, amari, aperitivi e altri spiriti fu un bagno di sangue, dopo un solo anno di applicazione l’export crollò del 40%: l’import americano di spiriti italiani era di 161,3 milioni di dollari nel 2019, scese a 96,7 milioni di dollari nel 2020. Poi nel marzo 2021, dopo un accordo tra l’Unione europea e l’Amministrazione Biden, i dazi vennero sospesi per cinque anni (quindi fino al 2026) e l’export di liquori e spiriti è tornato a crescere rapidamente arrivando a 233,6 milioni di dollari nel 2023.
Se un dazio del 25% provocò un crollo del 40% dell’export, un dazio del 200% – come quello annunciato ora da Trump – può essere devastante. E, in questo senso, c’è un altro precedente rilevante, che riguarda la guerra commerciale tra Cina e Australia. In seguito all’accordo di libero commercio tra Cina e Australia (Chafta) del 2015, che ha progressivamente abbattuto i dazi cinesi dal 14% a zero, i vini australiani hanno costantemente acquistato quote di mercato fino a raggiungere nel 2019 il 37% delle importazioni cinesi: la Cina era per l’Australia il più grande mercato di export del suo vino, per un valore di 725 milioni di dollari (il 40% del totale). Ma dopo che nel 2020 l’Australia chiese una commissione indipendente sull’origine del Covid, la Cina reagì con un’ondata di dazi “anti-dumping” che, tra i vari settori, colpirono il vino con un’aliquota del 218% (simile a quella annunciata da Trump sul vino europeo). L’effetto è stato che l’export di vini australiani in Cina si è immediatamente azzerato. A marzo 2024 la Cina ha deciso di rimuovere i dazi e, immediatamente, l’import di vini australiani è ripartito rapidamente, sebbene non sia tornato ai livelli pre dazi del 2019 perché è ovviamente difficile riconquistare un mercato quando si deve ripartire da zero.
Un altro caso significativo, in senso opposto, è quello del Canada. Dopo l’approvazione del Ceta – l’accordo di libero scambio tra Unione europea e Canada, contro cui in tanti si erano schierati dalla destra alla sinistra, passando per la Cgil e la Coldiretti – il tasso annuo di crescita dell’export di vini italiani in Canada in seguito all’eliminazione dei dazi è raddoppiato, passando al +7,6% nel periodo 2018-2022 rispetto al +3,7% del 2013-2017, mentre per il comparto liquori e aperitivi il balzo è stato superiore: +13,1%, rispetto a +2,9% del periodo pre Ceta.
Il quadro che emerge dai tre casi (dazi Trump I, Cina-Australia e Ceta) è chiaro: i dazi fanno molto male. Ma il governo sembra non rendersene conto, da un lato perché con Lollobrigida sminuisce l’impatto dei dazi di Trump, dall’altro perché è contrario all’accordo di libero scambio con il Mercosur che abbatterebbe il 90% dei dazi (tra cui quelli sui vini) aprendo il mercato sudamericano fatto da 270 milioni di persone. Non a caso sia Federvini sia l’Unione italiana vini, che erano favorevoli al Ceta, sono anche favorevoli all’accordo Ue-Mercosur.