“A Trump piace attaccare le persone che l’hanno attaccato, come alcuni artisti del Center”, ci dice lo storico Kazin. Il presidente ora sta trasformando l’istituzione secondo il suo gusto e facendosi condurre dall’immaginario di Musk: il potente eroe tech che conquista il mondo
Proporre un resort sulle macerie di Gaza, rinominare il Golfo del Messico, votare all’Onu con Russia e Corea del nord, abbandonare e fare un agguato a Volodymyr Zelensky, invitare il Canada a diventare il 51esimo stato, epurare il “deep state”, licenziare migliaia di lavoratori, eliminare parole come “gender” dai documenti, proporre una green card per milionari, far parlare Elon Musk dallo Studio ovale. Il bombardamento di novità – spietate e confuse – delle prime settimane del nuovo governo americano ha sorpreso fino a un certo punto, perché in fondo tutta la campagna elettorale di Donald Trump si era basata sul sovvertire. Ma c’è in mezzo a tutto questo qualcosa che per gli analisti è stato bizzarro, soprattutto perché è stato fatto appena arrivati alla Casa Bianca, come se fosse una vera priorità: Trump ha cacciato il board bipartisan del Kennedy Center e si è messo lui a capo dell’istituzione culturale. Non si è limitato a spolparlo, o distruggerlo, come ha fatto con l’Agenzia per gli aiuti internazionali, l’UsAid, ma ne ha preso le redini. Si è autoincoronato a capo del più importante centro culturale della nazione.
Il John F. Kennedy Center for the Performing Arts da oltre mezzo secolo ospita concerti di musica classica e jazz, opera lirica e balletto, danza contemporanea e simposi, laboratori e festival di teatro. Di recente in cartellone c’era una versione de Il libro della giungla dove Mowgli viene rappresentato come un rifugiato contemporaneo e poi la versione balletto di Delitto e castigo. Dal 1978 qui si organizzano i Kennedy Center Honors, una specie di Oscar della cultura nazionale. A scorrere la lista dei premiati, che vanno da Philip Glass a George Lucas, da Ella Fitzgerald a Bill Cosby, da George Clooney ad Arthur Miller, si vede una mappatura della Kultur statunitense. Nella sua prima presidenza, Trump si era sempre rifiutato di presenziare alla cerimonia. Nessun presidente da quando esiste il centro ha ignorato così tanto un tempio come il Kennedy Center. Ma se nel 2016 lo snobbava, adesso va all’attacco.
Accanto al complesso del Watergate, sulle rive del fiume Potomac, il centro culturale nazionale costruito dal presidente Johnson, ma già embrionalmente proposto da Eleanor Roosevelt, fu inaugurato nel 1971 con la Messa di Leonard Bernstein commissionata dalla vedova Jackie O. Lampadari soffiati a mano di cristallo Orrefors, un dono della Svezia, altissimi soffitti, corridoi maestosi di 190 metri, moquette rossa e terrazze perfette per i party post-show, il centro è anche sede della National Simphony Orchestra. Passandoci accanto si sentono gli aerei che atterrano al vicino aeroporto dedicato a Ronald Reagan oltre agli elicotteri che fanno su e giù tra la sede della Cia e Capitol Hill. Ogni anno si organizzano oltre duemila eventi, e Trump ne ha scelto uno da usare come grimaldello per mostrare che anche lì, sulla riva del fiume, è tutto marcio. Ha scelto uno drag show rivolto ai giovani. “Niente più drag show e niente più propaganda anti americana”, ha scritto sui social dopo il takeover, facendosi nominare “chairman”, ruolo che in passato non ha mai ricoperto nessun presidente, ma sempre manager culturali. Nel 2020 Trump, per esplorare l’ambiente del Center, aveva messo nel board l’italo-americano Paolo Zampolli, quello che aveva scoperto Melania a Milano e l’aveva presentata a Trump. Zampolli, ora ambasciatore dell’Onu in Dominica. Zampolli nel fulcro della cultura alta del District of Columbia vorrebbe far aprire un ristorante Cipriani e organizzare nel grande atrio passerelle per la settimana della moda.
Ma a parte aprirci ristoranti, cosa fare adesso con questo tempio della performance nazionale? Steve Bannon, l’ideologo dell’alt right populista ha parlato di “stare a guardare il collasso dell’élite di Washington”, esultando per l’attacco dei “visigoti” a quello che lui bolla come “l’alta chiesa profana dello stato amministrativo e ateo che guida la capitale imperiale”. “Benvenuti al nuovo Kennedy Center!”, ha scritto Trump online postando un’immagine generata con l’IA con lui conduttore d’orchestra. Ma si scherza nei talk show serali sulle poche, e spesso mediocri o invecchiate male, star che appoggiano il trumpismo, come il cantante Kid Rock, ex di Pamela Anderson, con il suo country rap patriottici, che ha modificato la sua American Bad Ass all’ultima convention repubblicana per celebrare Trump. Oppure come l’ottantaduenne Lee Greenwood, che ha riciclato il suo God Bless the Usa in un inno Maga dopo che era diventata una hit con l’11 settembre – Greenwood si presenta sul palco con una camicia-bandiera a stelle e strisce, i suoi album hanno titoli come American Patriot o This is my country. Bannon, un po’ troll un po’ Caligola, ha proposto di mandare sul palco, al posto di opere di Wagner o balletti di Martha Graham, il coro di ex carcerati arrestati per l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio.
Il “woke” è diventato un bersaglio facile, anche perché i progressisti hanno fatto l’errore di elevarlo a norma
Secondo lo storico Michael Kazin, professore della Georgetown University, interpellato dal Foglio, “come sempre a Trump piace attaccare le persone che l’hanno attaccato, anche solo leggermente. E la maggior parte degli artisti che sono apparsi al Kennedy Center si è opposta alle sue politiche, anche se molti di loro non l’hanno fatto in modo esplicito. E’ anche un affondo ‘populista’ all’élite culturale, ovviamente. Gli unici eventi che piacciono a Trump sono lo sport e i suoi stessi programmi tv”. Dopotutto è stato il reality The Apprentice a trasformarlo nella celebrità che è, e a dargli sufficiente star power per buttarsi in politica. Kazin nel suo libro American dreamers ha descritto come la sinistra americana, per quanto poco capace di costruire istituzioni o di realizzare i suoi piani politici, sia stata centrale nel dibattito culturale, usando musica, cinema e arte per portare dei messaggi con un forte impatto sulla società. “La maggior parte dei creatori di cultura di massa dagli anni ’60 era orientata verso sinistra, anche se non tutti hanno appoggiato i democratici”, dice Kazin. “Ma ci sono tipi di cultura che tendono a destra: il football (quello americano!), il wrestling, le gare di auto e la musica country. E le istituzioni della ‘cultura alta’, che includono il Kennedy Center e la maggior parte dei musei d’arte, danno per scontato un certo progressismo, in particolare su razza e gender, da parte di pubblico, curatori e artisti”. Quello che la destra bolla come “woke” è diventato un bersaglio facile del nuovo Partito repubblicano, anche perché i progressisti hanno fatto l’errore di elevarlo a norma sostituendolo a quei valori più alti che prima guidavano i democratici. “Gli Stati Uniti hanno visto varie ‘guerre culturali’ in passato che si sono concentrate sulle arti: menestrelli, lotte sulle interpretazioni shakespeariane, la sessualità dei primi film che ha portato a un codice morale repressivo, conflitto sulla musica delle minoranze (la race music), sul primo rock’n’roll e sul rap ‘gangsta’, per non parlare poi delle battaglie sull’integrazione razziale negli sport”, spiega Kazin. “Ma nessuno dei tre presidenti che hanno preceduto (o sconfitto) Trump si sono buttati in questo tipo di conflitti. Obama semplicemente ha insistito sull’invitare molti artisti neri alla Casa Bianca, ma allora era una cosa ben poco controversa”. Con la scusa di combattere il woke si potrà davvero riempire il cartellone di Washington con le poche celebrity avvizzite del mondo Maga? “Certo, artisti come Kid Rock potrebbero apparire al Kennedy Center, ma non è chiaro se i suoi fan (un gruppo che si assottiglia col tempo, penso) verrebbero fino a Washington per vederlo. E il centro non è mai stato noto per lavori e performance provocatorie. Con alcune eccezioni, il pubblico di opera e sinfonie e balletto è formato da persone sopra i cinquant’anni. Difficile che lì ci appaiano degli artisti ‘all’avanguardia’”. Quando hanno chiesto a Trump cosa pensasse della programmazione del Kennedy Center lui ha detto “roba terribile”. “Ci ha mai visto qualcosa?”, gli hanno chiesto, “no”.
“Abbiamo reso hot la presidenza, lo faremo anche col resto”, ha detto Trump sull’Air Force One
I gusti di Trump sono chiari a tutti, conosciamo dalle sue biografie e dalle sue serate a Mar-a-Lago che gli piacciano Ymca, Elton John, i musical come Cats ed Evita. Dai servizi sulle riviste, anche pre cappellino rosso, conosciamo il suo gusto per gli interni “dictator chic”, marmi, oro e mobili francesi del 18esimo secolo. Alle pareti affreschi con figure mitologiche. I suoi quadri preferiti sono ritratti di sé stesso. Sappiamo che non legge, se non i suoi stessi libri, ormai coffee table books con foto insieme a Kim Jong-un. Il gusto di Trump, scriveva la critica musicale Anne Midgette sul Washington Post nel 2016, “è quello di un personaggio di una soap opera”. Rappresenta con i suoi lussi da boss quello a cui aspira l’uomo medio, la sua è l’immagine stereotipata di ricchezza. “I suoi riferimenti artistici potrebbero essere opera lirica kitsch, musica country e reality televisivi, che sembrano antitetici agli obiettivi del Kennedy Center”, ci dice Kyle Chayka, firma del New Yorker, dove tiene una rubrica sull’impatto di internet sulla cultura. L’invadenza di Musk nella vita di Trump sta forse allargando le sue vedute oltre Andrew Lloyd Webber. “In questo momento Musk è diventato ancora più di prima una figura culturale influente, a cui molti aspirano”, ci spiega il giornalista. “Ovviamente non sono un suo fan, ma lui continua a costruire questo archetipo di potente eroe tech visionario che vuole conquistare il mondo. Il suo gusto tende verso lo strano, anche perché sta molto online. Quindi magari vedremo delle proiezioni di Evangelion alla Casa Bianca”. E poi c’è l’IA che diventa un ennesimo strumento per veicolare i messaggi dell’Amministrazione Trump, e che ne sottolinea il gusto. “Postando molto contenuto generato con l’IA Trump sta immaginando o proiettando un nuovo mondo, in cui i suoi follower possono credere. Il materiale deepfake e IA o anche solo i video Asmr delle detenzioni dei migranti sono esempi lampanti. Anche se sappiamo che è finto, penso che siamo un po’ tutti alla mercé dei contenuti IA al momento, solo perché è la novità, e questo detiene ancora molto potere”, spiega Chayka, che di recente ha pubblicato il libro Filterworld, come gli algoritmi hanno appiattito la cultura. “In un certo modo i progressisti hanno avuto un monopolio sulla cultura popolare soprattutto perché Hollywood è stato molto liberal, e Hollywood ha controllato gran parte di quello che vedevamo”, continua il giornalista del New Yorker. “Ora questo si è destabilizzato con l’ascesa di YouTube e TikTok, che permettono di avere più contenuti generati dagli utenti e dai creator con alti livelli di produzione, e che non tendono a essere liberal come l’élite hollywoodiana. Penso che ci sia una generale esaurimento verso la wokeness, sì, ma quella postura è arrivata da Hollywood tanto quanto da altri luoghi. La vera distruzione di quell’egemonia la vedremo nell’emergere di nuove tecnologie e di nuovi meccanismi di distribuzione”.
“Postando contenuti generati con l’IA Trump sta proiettando un nuovo mondo”, ci dice Kyle Chayka del New Yorker
Se Obama era stato criticato nei suoi mandati perché preferiva R&B, jazz e Motown a quartetti d’archi e Bizet, oggi le critiche a Trump oltre che sui gusti risiedono nei metodi. Forse è l’ennesimo caso in cui si cerca di mostrare il “fascismo” (parola usata verso la fine della campagna elettorale da Kamala Harris) innato di Trump, ma c’è chi vede nella conquista degli spazi culturali e artistici un tic autoritario. Sul Guardian Adrian Horton ha scritto: “Scegli un regime oppressive nella storia e troverai tentativi di controllare l’arte”. E si inizia con i vari paralleli non solo del passato – performance “woke” come nuova “arte degenerata” – ma anche con Viktor Orbán che ha preso il controllo delle istituzioni culturali dell’Ungheria (Orbán è spesso citato da Trump come amico e come modello di uomo forte a cui aspirare). In una telefonata sentita di sfuggita sull’Air Force One Trump ha detto che trasformerà il Kennedy center in qualcosa di “hot”. “Abbiamo reso hot la presidenza”, ha detto, “lo faremo anche col resto”.