Perché i dazi, anche quelli europei, sono sempre sbagliati

Le inevitabili ritorsioni dell’Ue contro i dazi Trump sono comunque un atto di autolesionismo. L’Europa dovrebbe concludere nuovi accordi commerciali (Mercosur e India) per può diventare la guida di una coalizione globale che rilanci il libero scambio

Nel 1982, in un discorso alla nazione, il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan spiegava agli americani i danni del protezionismo e delle guerre commerciali usando una metafora facilmente comprensibile. “Siamo sulla stessa barca con i nostri partner commerciali. Se un partner fa un buco nella barca, ha senso che l’altro faccia un altro buco nella barca?”. La risposta è ovvia. Eppure quando qualche paese impone i dazi, come ha fatto Trump, la reazione automatica è rispondere allo stesso modo, come ha fatto l’Europa.

Dopo che ieri sono entrati in vigore le tariffe del 25% sull’acciaio e sull’alluminio imposte dagli Usa, la Commissione Ue ha annunciato un pacchetto di dazi contro le merci americane per un valore di 26 miliardi di euro (in modo da pareggiare i dazi Usa sulle merci europee per un valore di 28 miliardi di dollari). La risposta europea avverrà in due step. Il 1 aprile rientreranno in vigore le contromisure introdotte in risposta ai dazi del primo mandato di Trump, e poi sospese fino al 31 marzo 2025 dopo l’accordo con l’Amministrazione Biden, che colpiscono beni caratteristici dell’export americano come il whiskey, i jeans Levi’s e le moto Harley-Davidson. In una seconda fase, che si concluderà a metà aprile, la Commissione Ue individuerà altri prodotti da colpire per un valore di altri 18 miliardi.

L’obiettivo europeo è di adottare una ritorsione efficace, ovvero capace di danneggiare gli Stati Uniti, e che al contempo riduca al minimo i danni per l’Europa. Un criterio è quello di colpire settori politicamente sensibili per la constituency del Partito repubblicano. Ad esempio la soia, perché è coltivata in Louisiana, lo stato d’origine dello speaker della Camera Mike Johnson. Insomma, si tratta di fare un buco nella barca che faccia allagare di più la zona in cui si trovano gli Stati Uniti, sperando che Trump ci ripensi e si metta a negoziare.

D’altronde, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha usato parole misurate, dicendo che “i dazi sono tasse” che “fanno male alle imprese e ancora peggio ai consumatori”, perché aumentano i prezzi e distruggono le catene del valore: “Né gli Stati Uniti né l’Unione europea ne hanno bisogno” ha detto Von der Leyen, aggiungendo poi l’Ue è aperta a un negoziato con gli usa per rimuovere reciprocamente le nuove barriere tariffarie. C’è una razionalità politica nella strategia della Commissione Ue e, probabilmente, è anche l’unico modo per farsi comprendere da Donald Trump. Lo dimostra il caso recente dell’Ontario: la provincia canadese, dopo i dazi Usa sull’acciaio, aveva annunciato un’extratassa del 25% sull’export di elettricità che avrebbe colpito 1,5 milioni di americani negli stati di New York, Michigan e Minnesota. Trump aveva prima reagito annunciando un altro 25% di dazi sull’acciaio, ma poi ha chiamato per deporre i rispettivi dazi e concedere un incontro per negoziare il trattato di libero scambio con il Canada.

Non c’è dubbio, però, come peraltro ammette Von der Leyen, che i controdazi aggiungono un danno all’Europa con lo scopo di danneggiare gli Stati Uniti, dopo che Trump con i dazi ha già danneggiato sia gli Stati Uniti sia l’Europa. “La competizione nel masochismo e nel sadismo non è certo una ricetta per una politica economica internazionale sensata!” ammoniva il premio Nobel per l’Economia Milton Friedman che, al contrario, suggeriva una politica unilaterale di apertura al commercio internazionale. In questo contesto, forse, quella di Friedman non è un’opzione politicamente percorribile nei confronti degli Stati Uniti, perché convincerebbe Trump di aver vinto e quindi lo indurrebbe a proseguire. Ma l’Europa può sfruttare questa fase di caos prodotta dalla guerra commerciale globale dichiarata da Trump per promuovere e rilanciare il libero commercio nel mondo.

Ci sono accordi commerciali da approvare in Consiglio europeo, come quello con il Mercosur (Sud America), che è ostaggio del no di Francia e Italia, quantomai importante perché riguarda prodotti e beni agricoli (ad esempio la soia) ora colpiti dalla guerra commerciale con gli Stati Uniti. C’è un accordo da concludere con l’India, una revisione del trattato con il Messico da finalizzare. E ci sono negoziati da rilanciare come quelli con Indonesia e Malesia. Attraverso un nuovo round di accordi di libero scambio l’Europa può da un lato limitare i danni del protezionismo di Trump e dall’altro proporsi come punto di riferimento di una coalizione globale che ha l’obiettivo di abbattere le barriere e salvare il multilateralismo nel commercio internazionale.

Come diceva Reagan in quel discorso del 1982, “non dovremmo fare buchi, dovremmo lavorare insieme per tapparli. Dobbiamo rafforzare la barca dei mercati liberi in modo che possa guidare il mondo verso la ripresa economica e una maggiore stabilità politica”. Ma ciò vuol dire che gli stati europei, a partire da Francia e Italia, devono decidere di abbassare le barriere che hanno eretto, a danno degli europei e del resto del mondo che vuole commerciare con noi.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali

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