Con il voto sul piano per il riarmo europeo all’Europarlamento torna l’asse Lega-M5s. Meloni con von der Leyen, Schlein si sfila: Pd diviso. A guardare il fronte dei sì, invece, emerge sempre più con chiarezza quale sia la maggioranza che dà le carte a Bruxelles. I nuovi equilibri Ue
Bruxelles. Il generale Vannacci, la capitana Rackete, il pandista Marino, il sovranista Bardella, il “papà del reddito” Tridico e lady Zemmour: al fronte del no al piano per il riarmo Ue manca giusto Filippo Champagne per trasformarsi da tabulato a scaletta di Cruciani. Eppure, tra i 204 eurodeputati che si sono schierati contro il ReArm Europe, un fil rouge c’è, ed è quello di volere un’Europa più debole. Oltre ai contrari c’è poi un girone ancor più bislacco: quello degli astenuti. Una strana compagine da 46 eurodeputati dominata dagli undici fedelissimi di Schlein, che hanno scelto di seguire la segretaria Pd e scendere dal carro della governance Ue proprio nel momento in cui si prende una decisione che promette di essere una svolta epocale.
Tra gli astenuti, attenzione, non ci sono solo Zingaretti & Co., ma anche i rumeni di Ecr, probabilmente ancora irritati dal fatto che il loro candidato filo-Cremlino sia stato escluso dalle elezioni in Romania. Oltre ai dem filo-Schlein e ai rumeni filo-Putin, tra gli astenuti si trovano anche alcuni esuli dei Verdi e dei Liberali. Il fronte del no dunque, accoppia la Lega al M5s, la sinistra Ue all’AfD, Le Pen a Orban e agli alleati polacchi di Meloni: una riedizione pacifista del rossobrunismo, ma gli equilibri non sono affatto alla pari. I sedicenti pacifisti, infatti, sono molto più bruni che rossi: tra i 204 militanti per la pace, 58 vengono dalla Sinistra Ue, dai Socialisti o dai Verdi, mentre oltre 130 appartengono alle forze di estrema destra. Mancano all’appello una ventina di eurodeputati dei non iscritti, tra cui però si nasconde gente così spudoratamente filonazista che persino l’AfD ha avuto remore ad accoglierli nel proprio gruppo.
Se i 204 contrari sono uno strano mix senza collante, hanno però almeno la chiarezza di votare coerentemente con ciò che dicono, dote che manca al girone degli astenuti. Nella delegazione Pd, infatti, pochi minuti dopo il voto parte il via libera al contorsionismo. Brando Benifei spiega, via nota, che la sua astensione deriva dal fatto che lui “sostiene la Difesa europea e i necessari investimenti”. Parole in leggera controtendenza con Tarquinio, che invece ci tiene a far sapere che l’astensione è “la testimonianza della sua convinta contrarietà al piano di riarmo”. Meno male che a far chiarezza ci pensa Nicola Zingaretti, che, sempre via comunicato, dichiara di essersi astenuto dal votare il piano di riarmo perché vuole “costruire una Difesa comune europea” e mette nero su bianco che personalmente ritiene “importante tenere viva una critica, affinché anche su questo tema rimanga forte uno stimolo per costruire politiche comuni”.
A guardare il fronte dei sì, invece, emerge sempre più con chiarezza quale sia la maggioranza che dà le carte a Bruxelles. Se si guarda con lenti italiane i messaggi sono due: il primo è che la maggioranza di governo è ormai cronicamente spaccata su tutto ciò che riguarda la politica estera Ue; il secondo è che nella maggioranza Ursula ormai c’è Meloni, ma non c’è Schlein. Con la sola eccezione dell’astensione di oggi sul testo sull’Ucraina, che portava con sé il grave peccato di una lesa maestà a Donald Trump, la delegazione meloniana è diventata infatti una stampella più che affidabile alla governance di Ursula von der Leyen. E i tabulati mostrano il sostegno decisivo dei quasi trenta eurodeputati di FdI a tutti gli ultimi testi proposti dalla Commissione.
Ma se Fratelli d’Italia è cliente fisso alla tavola a cui siedono Ppe, Renew e Socialisti Ue (mutilati di mezzo Pd), il resto di Ecr, il gruppo europeo a guida meloniana, fatica a trovare una quadra. I polacchi dell’ex premier Morawiecki, alleato storico di Fratelli d’Italia, infatti, non ne vogliono sapere di fare il salto nel mainstream e votare i piani di von der Leyen.
A colmare il vuoto e guadagnarsi un posto fisso chez Ursula ci pensano i Verdi. La compagine ambientalista, infatti, si muove compatta e assicura oltre 40 voti al testo sulla Difesa Ue, portando gli ecologisti francesi, tedeschi, olandesi e belgi a votare i piani di riarmo della Commissione. Le defezioni nei Verdi, infatti, sono solo otto, di cui quattro italiani: Marino, Scuderi, Guarda e Orlando, che scelgono invece di iscriversi alla strana coabitazione del fronte del no.
Poi ci sono le intese impossibili. All’operazione di maquillage cercata da Fratelli d’Italia con un emendamento che proponeva di cambiare il nome del piano di riarmo Ue da ReArm Europe a Defend Europe, per renderlo più digeribile agli stomaci italici, abbocca solo il Pd. L’emendamento, infatti, viene respinto dall’aula con 507 voti contrari, 97 favorevoli e 56 astenuti. A votare per la modifica solo il gruppo di Ecr, l’intera delegazione del Partito Democratico (senza defezioni), quattro popolari e un patriota della Repubblica Ceca. L’operazione viene snobbata persino dagli alleati di governo di Lega e Forza Italia, ma tanto quel che accade Strasburgo, quasi sempre, rimane a Strasburgo.