Perché il reato di femminicidio non sta in piedi. Parla il prof. Vittorio Manes

Il giurista: “La proposta si colloca nell’ambito del crescente utilizzo del diritto penale in chiave simbolica. La fattispecie di reato risulta composta di elementi che non specificano la materialità e l’offensività della condotta, ma si affida a ricognizioni interiori, e come tali molto arbitrarie”

La proposta di introdurre il reato di femminicidio, certamente comprensibile nell’intento di contrastare un fenomeno odioso, suscita perplessità, non solo per come viene formulata la nuova fattispecie penale, ma perché sembra collocarsi nell’ambito del crescente utilizzo del diritto penale in chiave simbolica e quasi consumistica che va avanti da troppi anni. Da molti anni siamo di fronte a vere e proprie operazioni di marketing, spesso tese a ottenere ricadute in termini di consenso elettorale. Ci sono tutti gli elementi per definire anche il femminicidio un reato spot, non a caso è stato proposto in coincidenza con una data particolare”. Così, intervistato dal Foglio, il professore Vittorio Manes, docente di Diritto penale all’Università di Bologna, commenta il ddl varato dal Consiglio dei ministri venerdì scorso (alla vigilia della Giornata internazionale della donna), che introduce nella legislazione italiana il reato di femminicidio.

Il testo recita: “Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità, è punito con l’ergastolo”. Attualmente il codice penale prevede una pena non inferiore a 21 anni per l’omicidio, che però raggiunge l’ergastolo se commesso nei confronti del coniuge, del convivente o della persona con cui si ha una relazione affettiva. La novità del ddl proposto dal governo, dunque, è soprattutto l’istituzione di un reato autonomo di femminicidio.

“Siamo tutti dalla parte delle vittime, soprattutto quando parliamo di fenomeni così gravi e drammatici, sui quali tutti condividono l’esigenza di giustizia e di risposta concreta che l’ordinamento deve assicurare”, spiega Manes. “Ciò premesso, però, il problema riguarda l’efficacia e la razionalità della risposta apprestata per contrastare queste fenomenologie criminose”. “La formulazione del nuovo reato sembra allontanarsi dai postulati del diritto penale del fatto, della materialità, e avvicinarsi a quelli del diritto penale soggettivo – prosegue il giurista – La commissione di un femminicidio come atto di discriminazione è insuscettibile di una verifica empirica. L’unica via per l’interprete sarebbe quella di ricorrere a un’opera di introspezione nell’autore del reato. Lo stesso discorso vale per l’uccisione ‘come atto di odio’. Ma in ogni omicidio volontario, non solo nel femminicidio, è sempre presente un elemento di odio verso la persona offesa. La nuova fattispecie di reato raggiunge quasi il paradosso quando fa riferimento alla ‘repressione dell’esercizio dei diritti, delle liberte o dell’espressione della personalità della persona offesa’: più che un omicidio quale può essere la condotta che reprime l’espressione della personalità? Insomma, la fattispecie di reato risulta composta di elementi che non specificano la materialità e l’offensività della condotta, ma si affida a ricognizioni interiori, e come tali molto arbitrarie”, evidenza Manes.

Per quanto riguarda la pena prevista, prosegue Manes, “si ricorre ancora una volta all’ergastolo, cioè alla pena perpetua, nonostante le critiche costituzionali che da sempre coinvolgono questa tipologia di pena”. Nel presentare il ddl, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha parlato di “svolta epocale”: “L’aver costituito una fattispecie autonoma, da un lato ci esime da una serie di problematiche tecniche che riguardano i bilanciamenti tra circostanze attenuanti e aggravanti, ma soprattutto è una forma di attenzione a questa problematica emersa in modo così dolorosa negli ultimi anni”.

“Questo ricorso ossessivo al diritto penale come strumento di risoluzione di problemi sociali anche molto gravi si basa sull’illusione che basti introdurre un reato per ottenere una risposta in termini di diminuzione dei tassi di criminalità, cosa che invece non accade”, commenta Manes. “Siamo di fronte all’ennesimo atto di fede nelle capacità di risposta del diritto penale nei confronti di fenomeni complessi che a me sembra ben poco ragionevole, e che finisce per declinare nel nome delle vittime una risposta legislativa meramente simbolica. Se si volesse davvero proteggere le vittime si dovrebbe intervenire attraverso altri strumenti, quelli delle politiche di prevenzione, sociali e soprattutto culturali”, conclude Manes.

  • Ermes Antonucci
  • Classe 1991, abruzzese d’origine e romano d’adozione. E’ giornalista di cronaca giudiziaria e studioso della magistratura. Ha scritto “I dannati della gogna” (Liberilibri, 2021) e “La repubblica giudiziaria” (Marsilio, 2023). Su Twitter è @ErmesAntonucci. Per segnalazioni: [email protected]

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