“Norma” è tornata, con la voce da applausi di Jessica Pratt

La Scala, dove manca dal 1977, la metterà in scena fra pochi mesi. A Vienna hanno appena debuttato due produzioni in contemporanea e in concorrenza, mentre domenica è tornata al Maggio

Donizetti le avrebbe chiamate le convenienze e inconvenienze teatrali. Siamo rimasti per decenni senza Norma, perché il titolo era tenuto in ostaggio da vedovi e prefiche fra lacrime e sospiri (ah, la Leyla! Ah, la Joan! Ah, la Montse! E soprattutto: ah, la Maria! E diciamolo: ah, che palle!) e forse anche dalla difficoltà di risolvere un capolavoro così sconcertante. Adesso, forse per la definitiva estinzione dei de cuius, è improvvisamente diventato di norma fare Norma. La Scala, dove manca dal 1977, la metterà in scena fra pochi mesi; a Vienna hanno appena debuttato due produzioni in contemporanea e in concorrenza, alla Staatsoper e all’an der Wien; domenica è tornata al Maggio, dov’era desaparecida dalla mitica edizione Scotto-Muti-Ronconi del ’79 (del Novecento, viene voglia di precisare). I direttori artistici dovrebbero sempre ispirarsi all’Artusi, non il teorico musicale Giovanni Maria, grande nemico di Monteverdi, ma proprio il gastrogenio Pellegrino, che insegnava che se si vuole cucinare il pollo arrosto la prima cosa da fare è prendere, appunto, un pollo. Insomma, se vuoi fare Norma devi prima averne una.

A Firenze hanno saggiamente fatto debuttare Jessica Pratt, primadonna australiana di largo seguito e molti meriti. All’inizio della carriera, era un soprano di coloratura spericolato, più impegnato a sparare note che a dar loro un senso. Maturando, è diventata forse meno inappuntabile come virtuosa ma di certo più impegnata come interprete. Per Norma, ovvio, manca un po’ di polpa in certi momenti, per esempio il finale primo, ed è curioso che abbia un’amnesia proprio in “Casta diva”. Certo, non ha il carisma dell’Asmik Grigorian, il cui debutto all’an der Wien fatto correre tutta Europa, sottoscritto compreso; ma, a differenza sua, canta le note di Bellini e le canta tutte (e, come sappiamo, sono moltissime). Le canta anche bene, con sfoggio di pianissimi molto belli, uno su tutti “Ah, padre! Un prego ancor” prima di attaccare il finalone sublime che mandava Wagner aux anges, e figuriamoci noi, sopracuti diciamo più giudiziosi di un tempo, agilità sicurissime anche con variazioni brillanti in “Ah bello a me ritorna”. Non sarà una Norma rivoluzionaria o che entra direttamente nella storia, ma è una Norma coerente, ben calibrata, benissimo realizzata e alla fine giustamente acclamata.



Altro elemento del massimo interesse, il giovin direttore Michele Spotti, davvero bravo a trovare, fin dalla Sinfonia, il giusto punto di equilibrio fra lirismi incantati e bellicosità bandistiche, che pure non mancano. Che Bellini non sia un drammaturgo musicale ma un mero melodista è una favoletta da tempo smentita; ma, appunto, il suo teatro vive di bilanciamenti delicati e va cercato, tutto, nella musica. Maria Laura Iacobellis è un’Adalgisa deliziosa, giustamente più chiara della già chiara Pratt, segno che al Maggio c’è qualcuno che i cast li sa fare; Riccardo Zanellato, un Oroveso di solida e solita tradizione. Resta il consueto problema di Pollione, che Mert Süngü tutto sommato risolve, sia pure con suoni non sempre piacevoli. Da segnalare due esperimenti: il do acuto della cavatina con un tentativo di falsettone e la cabaletta “Me protegge, me difende” curiosamente letta come brano elegiaco e non eroico.



Lo spettacolo di Andrea De Rosa serve soprattutto a far debuttare i nuovi ponti mobili del palcoscenico, che si alzano fra molti “ovvìa” mostrando sotto l’abituale buia foresta druidica il loft dove vive Norma. La regia ci risparmia l’effetto Asterix; per il resto, un po’ di fuffa di mimi, la solita insensata recitazione “da cantanti” e qualche amenità, come Norma che ordina a Clotilde di celare entrambi i cari pargoletti e poi lascia in bella vista sul loro letto a castello un orsacchiotto di peluche taglia XXL. In generale, almeno per noialtri convinti che Erode sia stato un misconosciuto benefattore dell’umanità, i pupi (peraltro qui assai spigliati e giustamente applauditi) in Norma andrebbero ostensi il meno possibile. E anche altrove.

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