Storie dal confine fra Stati Uniti e Messico, dove il deserto assiste alla tragedia dei migranti. Gli scatti di Francesco Anselmi
Un coyote (chi trasporta i migranti al di là del confine in cambio di soldi) con un tatuaggio sul petto che si fa una birra dopo il lavoro; una suprematista lesbica che non vuole essere definita nazista che si rilassa sul divano con gatto, mitra e fucile a pompa; un miliardario in pensione maniaco del controllo con un sistema di droni che si alza in volo per scacciare i migranti che gli passano in giardino: sono tre delle tante foto raccolte in “Borderlands” (Kehrer Verlag, 2024), il bel libro che il fotografo documentarista milanese Francesco Anselmi ha dedicato alle terre di confine lungo il maledetto muro eretto tra Stati Uniti e Messico. Immagini e storie catturate dall’obiettivo del fotografo, classe 1984, che tra il 2017 e il 2019 ha esplorato in lungo e in largo questa striscia di terra desolata, dalla parte americana, nel tentativo di raccontarne la complessità e di non cadere nella facile trappola della propaganda strillata di un’emergenza che in realtà è solo politica. Perché le migrazioni di popoli avvengono ovunque da millenni, e chi cerca un futuro migliore quel confine una volta tratteggiato dal fiume Rio Grande, dalle terre dei Nativi e dall’enorme deserto del Sonora sempre lo attraverserà, anche a rischio di morire. O, peggio, di essere arrestato dalla polizia di frontiera e poi incarcerato in un centro di detenzione che somiglia all’inferno.
Dall’Oceano Pacifico al Golfo del Messico ci sono più di 3.000 chilometri di terre, per lo più desertiche, che si stanno trasformando in luoghi di morte, occupate da militari e sorvegliate 24 ore su 24 per evitare che qualcuno passi da una parte povera, il Messico, a una presunta ricca, gli Stati Uniti. Per evitare che la parte “giusta” del confine venga contaminata. Borderlands è uno straordinario racconto fotografico in un bianco e nero luminosissimo il cui obiettivo è puntato al cuore di chi abita quei luoghi, cercando di ascoltare la voce delle persone, il grido di chi subisce quotidianamente violenza, il suono di un deserto implacabile eppure vivissimo.
“I muri li vedo come qualcosa che devono eventualmente proteggere le persone”, mi racconta Anselmi mentre siamo seduti al caffè della Triennale di Milano prima della presentazione del libro, “una barriera sta davanti a un precipizio, a qualcosa di rischioso, dove non bisogna andare. L’utilità di questo muro può anche esserci, in alcune zone, per evitare che i migranti imbocchino delle strade particolarmente pericolose. Quello è l’unico senso per cui concepisco un muro. Al servizio delle persone. Mai come limite”. Ad accompagnarlo, oltre alla curatrice del libro Renata Ferri, c’è un ospite d’eccezione, lo scrittore americano Francisco Cantù, lontane origini messicane, autore del toccante reportage “Solo un fiume a separarci. Dispacci dalla frontiera” (minimum fax, 2019) e del testo d’accompagnamento al libro di Anselmi.
I due libri sono in qualche modo gemelli e narrano, l’uno con immagini vivide e l’altro con racconti strazianti, sogni e incubi di questo popolo completamente dimenticato da qualsiasi amministrazione e da qualsiasi politica. Cantù stesso ricorda che dopo la laurea si è arruolato nella polizia di frontiera con la speranza di capire il luogo fisico, emotivo e sociale del confine, con l’illusione di cambiare un sistema disumano dall’interno. Dopo quattro anni di quella vita infernale abbandona. Gli chiedo se si sente sconfitto e se, arruolandosi oggi, più maturo, sarebbe in grado di vedere più chiaramente i contorni di questo enorme disastro. Lui sospira ed esplode in una risata liberatoria: “E’ stato un fallimento, ovviamente. Negli Stati Uniti abbiamo questa narrazione per cui basta una persona per cambiare tutto, per cambiare la storia, il mondo, e fa parte del metabolismo delle narrazioni con cui si cresce. L’individuo è l’unità più potente della società americana. Poter cambiare qualcosa dall’interno, vedere qualcosa che gli altri non hanno visto: è un’idea profondamente naïf”.
Uno sguardo genuino, privo di preconcetti, ha accompagnato anche i viaggi di Anselmi, che ha perlustrato il confine molto spesso da solo, abbracciando il punto di vista dello straniero che osserva e non giudica. La curatrice del libro Renata Ferri descrive la luminosa cromia del bianco e nero adottato dal fotografo: “Mostra paesaggi deserti e lunari violati dal muro che, come un lungo serpente, corre accanto a frammenti di esistenze: quelle di sorvegliati e sorveglianti, entrambi protagonisti di una contemporanea tragica epopea che non avrà mai vincitori”. E ciò che rende interessante il lavoro di Anselmi è proprio il tentativo costante di ascoltare tutte le voci incontrate lungo il cammino, siano essi migranti, coyotes o soldati delle varie agenzie di sicurezza che pattugliano il muro.
“Mi sento sempre in debito quando qualcuno decide di mettere sul tavolo una parte della sua vita e di aprirsi con me, anche se appartiene alle milizie o a gruppi dei quali non condivido le azioni”, mi confessa Anselmi, “però quando viene il momento in cui una persona decide di aprirsi, attraverso il ritratto che tu gli scatti, il rispetto è enorme. Questo lavoro non si può fare altrimenti. Io mai mi permetterei di accedere alla vita di queste persone con un atteggiamento giudicante. Sono persone dimenticate, in situazioni di grande difficoltà. Se poi vogliamo dirla tutta qui risiedono le eventuali colpe della sinistra nel non aver saputo affrontare le tematiche di confine, e oggi questa gente rappresenta la base elettorale di Trump, il cosiddetto White Trash tanto disprezzato, che sta decidendo le sorti del pianeta”.
La discussione si fa più animata e nello sfogliare il libro del fotografo emergono dettagli inquietanti che mirano all’attuale presidente americano ma che, tristemente, riportano a responsabilità anche e soprattutto di chi l’ha preceduto: “E’ il simbolo della propaganda. Trump ha agitato molto il muro come spauracchio ma poi nei fatti ha costruito pochissime sezioni. Tutto quello che è presente in questo momento è stato costruito dalle Amministrazioni precedenti, a partire da Clinton, Bush e Obama. E’ veramente il grande simbolo della propaganda”, dice Anselmi concitato. Una lunga striscia di metallo che inizia e si interrompe, poi inizia nuovamente, prende una forma differente, a volte con una fence singola, una sezione unica, a volte doppia, per rendere ancora più scoraggiante il passaggio. Ma, nonostante ciò, la gente continua a superarlo in cerca di condizioni di vita migliori.
“‘Chi cazzo è che se ne va a spasso nel deserto con quarantacinque gradi?’, domandò Hart. Mi scolai l’ultimo sorso della seconda birra. ‘I migranti un tempo passavano il confine nelle città’, gli spiegai, ‘a San Diego, El Paso, fino a quando la polizia non ha sigillato la frontiera negli anni Novanta, installando barriere e assumendo nuove reclute come noi. I politici pensavano che se avessero chiuso le città, quella gente non si sarebbe arrischiata ad attraversare le montagne o il deserto. Ma si sbagliavano. E adesso tocca a noi gestire la situazione’”. Il memoir di Francisco Cantù sugli anni passati a perlustrare il muro è potente e doloroso, mette il lettore di fronte alla tragedia quotidiana di dover fronteggiare contemporaneamente la disperazione di chi scappa e la violenza di chi rincorre. Ma lo pone anche di fronte alla normalizzazione della violenza, complice la politica che erode il senso umano di compassione, il senso di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, di ciò che è normale e di ciò che è disumano. Con la costante possibilità di trovare nel deserto i resti dei cadaveri di chi non ce la fa.
“Stiamo trasformando i confini in dei luoghi di morte per quelle che sono le politiche che vi applichiamo”, mi incalza Anselmi, “perché negli ultimi 20 anni nel solo deserto del Sonora sono morte più di seimila persone. O meglio, sono stati ritrovati i resti di più di seimila persone, ma chissà quanti ce ne sono ancora. Un cimitero. Ed è dentro, non è di là, non si può dire in Messico, è negli Stati Uniti, questo cimitero”.
La gente attraversa questo deserto per mille motivi, e il muro spesso non viene nemmeno percepito come tale perché da secoli messicani e americani vivono in quella terra, al di là e al di qua di linee di demarcazione e filo spinato. E quelle terre sono da sempre zone grigie dove i confini nella storia si sono mossi e spostati, e magari qualcuno un tempo aveva antenati dall’altra parte. Spesso perfino in città gemelle, ora in America, ora in Messico: Tijuana e San Diego, Ciudad Juárez ed El Paso, Nuevo Laredo e Laredo. “La prima volta che ho visto il muro nel deserto ricordo di aver pensato a quanto sembrasse un corpo estraneo”, mi racconta Cantù, che è cresciuto in America ma con una madre messicana guardia forestale, con la quale ha attraversato quel confine spesso, “sono cresciuto vedendo il deserto come un luogo bellissimo, ascoltando storie sugli animali e sulle piante che ci vivono. Solo la narrazione del confine è quella di un luogo desolato e brullo, violento e pericoloso, mentre la prima volta che ho visto il confine con i miei occhi ho capito che è un ecosistema perfettamente funzionante, dove le persone hanno vissuto per centinaia di anni in equilibrio con la natura”.
Un altro grande scrittore americano, Don Winslow, che ha raccontato la violenza e la corruzione della guerra al narcotraffico nella dirompente trilogia Il potere del cane, Il cartello e Il confine (tutti editi da Einaudi), ha sarcasticamente dichiarato che un muro “non serve a niente per la semplice ragione che ogni muro ha delle porte”. E ha poi aggiunto che “non c’è nessun problema messicano della droga, il problema è degli Stati Uniti. Mentre il governo americano spende cifre che non può permettersi nel tentativo di impedire alle droghe di entrare nel paese, una parte significativa della popolazione americana spende cifre (che spesso non può permettersi) per fare l’esatto contrario. I messicani devono avere l’impressione di vivere accanto a un gigantesco ed esigente stato schizofrenico”.
Le fotografie più intense e toccanti del libro di Anselmi sono quelle dei watchers, che riparandosi dal sole cocente cercano di ispezionare il paesaggio lontano. Il senso di spaesamento è grande: non si capisce se stanno osservando qualcuno che li rincorre o se, a loro volta, tengono d’occhio qualcuno che mette a repentaglio la loro conquistata serenità. Gente che guarda fuori dalla finestra, che osserva con un binocolo in cima a un promontorio, al riparo di un muro di cinta. Nelle fotografie di Anselmi quasi sempre chi osserva è armato. “Nelle Borderlands la sensazione è sempre quella dell’essere o preda o cacciatore. Per cui ci si guarda intorno per cercare di capire se ci sono dei cacciatori per i quali si può essere delle prede, ma allo stesso tempo il modo migliore per evadere la possibilità di essere una preda è quello di trasformarsi in cacciatori”, mi racconta il fotografo, introducendo l’argomento della sorveglianza, l’ossessione del controllo persino della natura sterminata, che è un concetto chiave per chi decida di esplorare il confine.
Cantù spiega che negli anni 90 l’attuazione della strategia di controllo ha illuso l’opinione pubblica che gli attraversamenti illegali si sarebbero ridotti non appena la gente si fosse resa conto di quanto quel territorio impervio e desertico fosse pericoloso. Ma ovviamente era una menzogna, perché la gente continuava a rischiare la vita come aveva sempre fatto.
Nel 1948 il musicista folk Woody Guthrie, il mito del giovane Bob Dylan, scrive il testo della canzone Deportee in segno di protesta per la morte passata sotto silenzio dei 28 braccianti stagionali messicani che venivano forzatamente rimpatriati dalla California alla fine della stagione del raccolto: “Alcuni di noi sono illegali, altri indesiderabili, il contratto di lavoro scade, dobbiamo andare via: seicento miglia fino al confine messicano, ci cacciano come banditi, come ladri di cavalli, come briganti. Addio, mio Juan, addio Rosalita, adios mis amigos, Jesus e Maria. Non avrete un nome quando sarete sul grande aeroplano e vi chiameranno soltanto deportees”. Più di settant’anni dopo c’è ancora chi non ha perso la speranza in un mondo un po’ meno ingiusto e canta ancora quella canzone, come il musicista texano Joe Ely, che ne ha inciso una cover nel suo ultimo disco Love and Freedom uscito qualche settimana fa. Un tempo le rotaie della Pacific Union portavano treni che univano i popoli. Ma poi i resti di quelle rotaie sono stati utilizzati per separare, non per unire, e per iniziare a costruire quel muro che un giorno probabilmente farà la fine che fanno tutti i muri: verrà inghiottito dal deserto luminoso e infuocato, da una natura così grande capace di superare anche questa tragedia.