Lo storico accordo con i curdi in Siria non placa il duo Putin-Trump contro Sharaa

Siglata un’intesa che concede diritti e cittadinanza alla minoranza. Ma americani e russi attaccano il governo islamista sulla questione degli alawiti, dopo essere rimasti in silenzio sui crimini di Assad

Quasi per mettere a tacere ogni speculazione sulle violenze di questi giorni nei confronti della minoranza alawita, lunedì il presidente siriano Ahmad al Sharaa e il comandante delle milizie curde delle Forze democratiche siriane, Mazloum Abdi, hanno siglato un’intesa per una storica integrazione dei curdi in un esercito nazionale. La svolta pone fine a mesi di negoziati che porteranno finalmente i curdi a godere di uguali diritti civili e cittadinanza siriana, due richieste che il regime di Bashar el Assad ha sempre negato alla minoranza del nord. Possibile che sul buon esito delle trattative abbia influito l’appello a deporre le armi rivolto la settimana scorsa dal leader del Pkk, Abdullah Öcalan. Non che vengano meno alcuni cortocircuiti. Ora, i curdi armati dagli americani si ritroveranno a essere tutt’uno con le autorità di Damasco, a loro volta sottoposte a sanzioni da parte degli stessi americani




Ma mentre Sharaa ha risolto una delle questioni più urgenti della nuova Siria post regime, a New York si è riunito d’urgenza il Consiglio di Sicurezza dell’Onu per parlare delle violenze contro gli alawiti. Per la prima volta di comune accordo Stati Uniti e Russia hanno chiesto di convocare una riunione a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza per discutere degli ultimi sviluppi in Siria. Vasily Nebenzya, rappresentante permanente di Mosca all’Onu, ha confermato lunedì che Washington e Mosca “stanno collaborando con sforzi condivisi”. Durante la sessione si è parlato della crisi più grave che le nuove autorità di Damasco si trovano ad affrontare dai tempi della destituzione di Assad. La settimana scorsa, sulla costa mediterranea fra Latakia e Tartus, i lealisti del regime hanno lanciato una violenta offensiva contro le forze governative guidate dal presidente provvisorio, Ahmad al Sharaa. I morti sarebbero oltre un migliaio, circa 400 quelli tra gli uomini di Damasco. Sotto accusa c’è la reazione sproporzionata da parte degli uomini del nuovo governo islamista a maggioranza sunnita. Centinaia di civili appartenenti alla minoranza religiosa alawita sono stati uccisi come ritorsione dalle forze governative. Si parla di fosse comuni ed esecuzioni sommarie. Se le frange irriducibili del governo islamista di ispirazione sunnita ritengono gli alawiti i sostenitori naturali del regime di Assad, Sharaa continua a spendere parole di moderazione. Il presidente ha annunciato una commissione di inchiesta per appurare le responsabilità sui crimini commessi, ma la sua immagine internazionale di ex islamista convertito alla moderazione sembra compromessa, così come le speranze di ottenere dagli Stati Uniti la rimozione delle sanzioni economiche. Lunedì il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa’ar, dal Lussemburgo dove era in visita ha invitato l’occidente a “non fidarsi di Sharaa, un jihadista in cravatta”. “L’Europa deve fare sentire la sua voce forte e chiara contro gli omicidi di massa degli alawiti e dei cristiani in Siria”.

L’invio di migliaia di rinforzi da parte del governo di Damasco ha riportato la situazione a una calma apparente, perché nelle campagne tra Baniyas, Beit Ana e Qadmus gruppi di assadisti combattono ancora, mentre si riportano violenze a Homs e alla frontiera libanese. Nel fine settimana, alcuni video hanno mostrato gruppi di alawiti che cercavano protezione nei pressi della base aerea di Hmeimim, a Latakia, quartier generale dei russi, i vecchi protettori del regime alawita di Assad. Questo ha indotto a sospettare che dietro al ritrovato attivismo dei lealisti ci fossero gli uomini di Mosca, le cui relazioni con le nuove autorità islamiste di Damasco sono tese da quando Assad è stato deposto lo scorso dicembre. Da mesi ormai Sharaa e il Cremlino trattano per la permanenza dei russi a Hmeimim e Tartus, ma i negoziati proseguono a rilento e la flotta russa è stata già smantellata in buona parte.

Domenica sera, Washington e Mosca hanno espresso preoccupazione per gli ultimi sviluppi in Siria. Prima il segretario di stato americano, Marco Rubio, ha scritto su X che “gli Stati Uniti condannano i terroristi radicali islamisti. Le autorità ad interim siriane devono trovare i responsabili dei massacri contro le minoranze”. Rubio ha fatto riferimento ai drusi, che sono la maggioranza nel sud della Siria, ai curdi e ai cristiani. Contro questi ultimi si sono diffuse voci di un accanimento particolare delle forze governative in questi giorni di combattimenti. Ma al di là di episodi sporadici, la stessa comunità cristiana di Latakia, con un comunicato diffuso domenica, ha invitato tutti a “non prestare ascolto a questi rumor”. Un invito non ascoltato dalla diplomazia americana, ma nemmeno da quella russa. Nell’annunciare la richiesta di un incontro al Consiglio di Sicurezza, il membro della delegazione russa al Palazzo di Vetro, Dmitry Polyanskiy, ha rilanciato il tweet di Tucker Carlson, icona del conservatorismo trumpiano. “Ora che Assad è stato esautorato dal potere, molti superstiti tra i cristiani della Siria sono massacrati e i luoghi sacri dissacrati”, ha scritto Carlson rilanciato dall’ambasciatore russo.

La convergenza tra americani e russi sulla Siria non è inedita. Il precedente risale al 2019, quando Donald Trump, allora al suo primo mandato da presidente degli Stati Uniti, si accordò con Vladimir Putin per un massiccio disimpegno dal paese. Brett McGurk, ex inviato speciale della coalizione internazionale contro lo Stato islamico, definì l’intesa “un regalo a Isis, Russia e Iran”. Ora lo scenario sembra riproporre uno schema analogo, a maggior ragione se si guarda all’allineamento fra Stati Uniti e Russia sul fronte della guerra ucraina. E non è un caso se in 14 anni di guerra in Siria i russi abbiano sempre posto il veto – per un totale di 17 volte – su qualsiasi risoluzione dell’Onu contro le atrocità del regime di Assad. Oggi qualcosa è cambiato.

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare “Morosini”. Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.

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