Trump annuncia che entreranno nelle riserve ufficiali degli Stati Uniti. Ma un po’ di storia serve a capire i rischi per il sistema dei pagamenti e i mercati finanziari. In guardia dagli sciamani
Aveva ragione Gilles Li Muisis: “In fatto di monete le cose sono molto oscure: esse crescono e diminuiscono di valore e non si sa che cosa fare; quando si pensa di guadagnare si trova il contrario”. Sono trascorsi oltre sei secoli da quando il saggio abate di Tournai, la più antica città del Belgio, esprimeva le sue angosce finanziarie e quei tormenti si sono moltiplicati alla velocità della luce o meglio di un clic sul computer: il mondo cripto è ancora più oscuro a cominciare dal nome. Ormai nel linguaggio comune ogni pedina usata nel grande gioco degli scambi viene chiamata moneta, ma non è così. La parola viene da monere, avvisare, avvertire, ammonire (di qui monito).
Quando si dà il nome di criptomonete alle nuove diavolerie digitali, non si esprime un augurio, ma un fosco presagio e il nome diventa ominoso. Bitcoin e le sue sorelle non sono in grado di proteggere o di evitare una crisi, al contrario, secondo molti, altrettanto saggi del buon monaco, portano in pancia il seme della crisi. Il secolo americano è segnato dal predominio del dollaro sancito fin dal 1944, ben prima della vittoria su Italia, Germania e Giappone. Un predominio basato sulla forza, ma anche sulla fiducia. Donald Trump lo rimette in discussione a favore di un denaro volatile come piuma al vento. Il suo discorso al Congresso, lungo e retorico stile Fidel Castro, lo dimostra.
Siccome ci siamo infilati nei meandri della storia, per spiegarci meglio facciamo un balzo nell’antica Roma, a cavallo tra realtà e mito. C’era a quel tempo, in cima al colle capitolino, là dove adesso sorge la chiesa di santa Maria in Ara Coeli, una grande statua dedicata a Giunone Moneta. La leggenda dice che sia stata la dea nel 390 a. C. ad avvertire le oche le quali a loro volta starnazzando avvisarono il popolo e il Senato che i galli senoni, partiti da Senigallia e guidati dal feroce Brenno, stavano per invadere l’Urbe. La diva Moneta, dunque, è colei che ha protetto i romani evitando la disfatta. Chi ci protegge dai bitcoin? Dalla elezione di Donald Trump in poi, la più diffusa delle false monete è caduta del 24 per cento, Ether del 46, il Trump Coin è piombato giù dell’83 per cento, Melania Coin addirittura del 94, insomma il valore di mercato s’è dissolto come neve al sole. The Donald e l’algida first lady ci hanno speculato su, hanno incassato un bel po’ di milioni, poi hanno lasciato che i loro ricchi giocattoli crollassero. Pure Javier Milei ha provato a fare il furbo, ma è rimasto con le dita nella marmellata. Adesso anche Trump vuole la sua statua, la sua Giunone Moneta, così annuncia che le criptovalute entreranno nelle riserve ufficiali degli Stati Uniti. Sarebbe un salto di qualità, forse l’inizio di una nuova èra nella storia del denaro, probabilmente una nuova èra di incertezza.
La parabola di Shylock
Denaro viene anch’esso dal latino (deni, derivato da decem, dieci per volta), ma fin da quando gli uomini hanno superato il semplice baratto e hanno cominciato a scambiare tra loro i prodotti del proprio lavoro, è diventato necessario utilizzare intermediari di ogni tipo, conchiglie, sale, pecore (di qui la pecunia). In fondo il bitcoin è l’ultimo anello della sterminata catena, è una perlina digitale. Ma tutti questi mezzi dovevano essere accettati e per questo non bastava il gioco della domanda e dell’offerta, occorreva un accordo sancito da una qualche autorità, interna o esterna al mercato, la quale accertasse le qualità del mezzo e delle merci stesse e avvertisse i giocatori che la regola andava rispettata. Monitorare, misurare, garantire ed eventualmente punire. Shylock chiese a garanzia del suo prestito una libbra la carne di Antonio. Ecco che a poco a poco il denaro, cioè il circolante con il quale si acquistano e si vendono le merci, diventa moneta dotata di tre proprietà: unità di conto, mezzo di pagamento e deposito di valore. Sono stati i mercanti ad avere necessità di una moneta, sono stati i governanti a sancirne la validità, a cambiarla, a riformarla, a scegliere un’ancora meno labile e volubile della sola consuetudine: l’argento per Diocleziano, l’oro per Costantino, la libbra per Carlo Magno, il tallero e poi il dollaro fino all’euro.
Oggi si distinguono la moneta legale o fiduciaria stampata solo dalle banche centrali; la moneta bancaria (tra l’80 e il 90 per cento del circolante), che corrisponde a un debito da pagare con un interesse; la moneta commerciale come le cambiali; la moneta elettronica come le carte di debito e di credito che però hanno sempre alle spalle conti e depositi ai quali fare riferimento. Adesso arriva la valuta digitale basata sulla crittografia (tecnologia blockchain, un database decentrato che condivide un protocollo), non emessa né regolata da alcuna autorità centrale che dovrebbe eliminare ogni materialità del denaro. Una evidente fuga in avanti, tanto che nel frattempo sono nati anche gli stablecoin ancorati a un qualche bene materiale, a una valuta ufficiale (il solito dollaro) e all’oro (guarda chi si rivede) così che la grande innovazione tecnologica torna all’antico con un processo di corsi e ricorsi degno di Giambattista Vico. Secondo gli studiosi più disincantati, finirà proprio così. In fondo lo dimostra il successo di Tether, la maggiore delle stablecoin, che è ancorata al biglietto verde.
L’unica vera moneta è quella che “può essere solo emessa da stati sovrani”, ha spiegato chiaro e tondo Paolo Savona, un economista che di queste cose se ne intende davvero per dottrina e per esperienza, visti tutti gli anni trascorsi alla Banca d’Italia. Le criptovalute sono una sua passione che può diventare un’ossessione, non ci dorme la notte, le ha studiate, analizzate, spolpate e arrivato all’osso ha detto che possono diventare un grande imbroglio. Lo aveva fatto a suo tempo analizzando i contratti derivati, anche loro promettevano di moltiplicare i debiti senza mai doverli pagare, anzi trasformandoli in denaro contante, come gli alchimisti trasformavano la pietra in oro. Oggi Savona presiede la Consob, la commissione che deve controllare il gioco degli scambi finanziari, cioè la borsa valori, quindi non è più un profeta disarmato. Ma quante divisioni ha davvero Savona? Quante ne ha la Banca d’Italia governata da Fabio Panetta, che da anni mette in guardia, anche lui, da rischi e pericoli che s’annidano non solo nel cattivo uso di questi nuovi mezzi di pagamento digitali, ma nella loro essenza, nel modo in cui sono stati concepiti e nell’obiettivo ideologico che li sostiene: smantellare la guida delle banche centrali, chiave di volta per ridurre lo stato al suo minimo livello.
Aprendo l’Assiom Forex il 15 febbraio scorso, il governatore della Banca d’Italia ha suonato un vero allarme: “Se questi mezzi di pagamento privati, facilmente integrabili in piattaforme commerciali con miliardi di utenti, dovessero diffondersi, le conseguenze potrebbero essere rilevanti. Le banche commerciali rischierebbero di perdere una parte importante delle loro funzioni. Nel dibattito pubblico si sostiene a volte che l’introduzione dell’euro digitale comporterebbe questo rischio, ignorando che la vera minaccia proviene dalle criptoattività, per le quali a differenza dell’euro digitale non sono previsti limiti alla detenzione da parte dei risparmiatori”. Secondo Panetta le banche centrali si troverebbero a operare in un contesto in cui pochi soggetti privati avrebbero un ruolo così rilevante da compromettere la stabilità in caso di incidenti. I pericoli per il sistema dei pagamenti e i mercati finanziari sarebbero dunque considerevoli.
L’oro digitale
E se le criptovalute occupassero il seggio che un tempo era dell’oro il quale, anch’esso, non ha un valore intrinseco a parte i costi per estrarlo? Chiamatela magica aura, ma il potere dell’oro è dovuto all’uso e alla consuetudine. E’ “l’idea di quel metallo” che trasforma in un vulcano la mente di Figaro. Perché non abbandonare il “barbarico relitto” contro il quale si scagliava John Maynard Keynes per adottare qualcosa in linea con i tempi? E’ una domanda che si fanno studiosi e operatori di borsa, così come molti economisti e persino banchieri centrali. Ma una cosa è usare bitcoin su piccola scala, tutt’altro è considerarlo l’ancora alla quale agganciare ogni mezzo di pagamento universalmente riconosciuto: non può funzionare. E quando entra nel paniere delle riserve ufficiali detenute dalle banche centrali, come gli stregoni di corte hanno suggerito al nuovo imperatore, è come mettere in casa un tarlo, o meglio una famiglia di termiti.
Deliri ideologici a parte, il genio è uscito dalla bottiglia, impossibile rimetterlo dentro. Si può controllare, forse, ma per ora le autorità sono solo all’inseguimento. Savona riconosce la portata di questa innovazione tecnologico-finanziaria, sia chiaro, tuttavia insiste che “senza una definizione giuridica di cosa sia la moneta nell’infosfera, la sfera dove opera il Genio informatico, non è chiaro quali siano attualmente i ruoli delle banche e come le autorità sorveglino i prodotti finanziari”. La Bce sta lavorando a un criptoeuro emesso dalla Banca centrale e quindi più sicuro. Trump vorrebbe una riserva strategica di criptovalute sulla quale basare il dollaro, così facendo può provocare una scarsità di dollari perché la moneta legale in teoria si può moltiplicare all’infinito, i criptodenari no; nel caso dei bitcoin il limite tecnico è di 21 milioni già quasi esauriti. Non sono speculazioni astratte, accadde già quando la valuta americana era ancorata all’oro. Gli Stati Uniti stampavano moneta a più non posso per sostenere la guerra in Vietnam e non c’era abbastanza oro per sostenere il tasso di cambio di 35 dollari l’oncia stabilito dagli accordi di Bretton Woods. Il giorno di Ferragosto 1971 il presidente Richard Nixon fu costretto a scindere il legame stretto tra biglietto verde e metallo giallo e impose dazi del 10 per cento sulle importazioni. Si scatenò una crisi finanziaria anticipando e in parte provocando anche la crisi petrolifera due anni dopo. Il bitcoin non è e non sarà mai come l’oro, tuttavia può provocare lo stesso effetto. Ma facciamo un passo indietro.
Il misterioso Satoshi Nakamoto
Se fosse giapponese, si chiamerebbe Nakamoto Satoshi, e probabilmente non lo è. Forse è tutti o nessuno, è un gruppo di geniali sviluppatori di algoritmi, chissà. Satoshi si potrebbe tradurre “veloce di mente”, Nakamoto è anch’esso un crittogramma, moto vuol dire “origine”, naka è “dentro”, “in mezzo” o anche “relazione”. A quel nome sono stati dati molti volti: un crittografo del Trinity College, Michael Clear, ma lui ha negato; un professore della New York University; un trio digitale (non canoro); informatici finlandesi; un australiano, Craig Steven Wright, ma millantava. L’ultimo indizio consistente riguarda il britannico Adam Back, informatico cinquantacinquenne, vero pioniere che continua a sviluppare la tecnologia blockchain. La patria di Alan Turing non poteva tradire i fan dei rompicapo. Nell’ormai lontano 2008 Satoshi presentò il protocollo Bitcoin e un anno dopo il software aperto, insieme ad altri anonimi; nel 2010 uscì dal gruppo e dal 2011 scomparve. La sua (o loro) creatura è un sistema di pagamento garantito da una concatenazione di contatti considerata impenetrabile. Il contratto che regola il rapporto tra estranei è la base del blockchain che raccoglie e conserva tutte le informazioni in questa sorta di Fort Knox digitale. Ne possiede la chiave chi ha sviluppato la sequenza originaria e il protocollo che consente il gioco dello scambio. Solo che un volta girata nella toppa comincia un vertiginoso carosello come quello dei dervisci rotanti.
Esistono almeno 25 mila criptodenari, ma l’80 per cento delle trattazioni avviene sulla piattaforma introdotta da Satoshi Nakamoto. Ciascuno può avere il proprio wallet bitcoin, il portafoglio digitale nel quale sono salvati i denari virtuali. Un indirizzo alfanumerico con 36 caratteri è tutto quel che serve ed è visibile per sempre sul database. Il suo esordio sembrò un gioco, poco più di una ragazzata. Nel 2013 il bitcoin valeva mille dollari, nel novembre scorso con l’elezione di Trump ha toccato i centomila dollari, poi è stata tutta una discesa. L’annuncio che entrerà nelle riserve gli ha ridato fiato, ma la decisione coinvolge la Federal Reserve, la banca centrale. Oggi ci sono circa 20 milioni di bitcoin, quindi si avvicina già la scarsità che in teoria fa rialzare i prezzi. La capitalizzazione è stimata in mille e 700 miliardi di dollari. Nel mondo la ricchezza monetaria in senso lato ammonta a 255 mila miliardi di dollari; 110 mila miliardi in Nord America; 55 mila in Europa e 43 mila nell’Asia. La strada è lunga per la giovane cripto e il percorso è pieno di trabocchetti. Il primo è nel limite imposto dalla sua natura stessa, inoltre ha bisogno di grandi centri di calcolo che consumano un’enorme energia. Il secondo è il rapporto con la moneta fiduciaria. Irregolarità e fallimenti sono all’ordine del giorno, ma finora hanno avuto un impatto limitato perché sono rimaste in una sorta di universo separato dal sistema finanziario ufficiale. E se, come vorrebbero i trumpiani, “i due ambiti” convolassero a nozze? Allora il criptodenaro diventerebbe come la criptonite per Superman. E molti temono che finisca tutto in un gigantesco schema Ponzi.
I crypto Ponzi
Sembrava miracoloso il sistema per guadagnare senza sudare inventato nel 1920 da Charles Ponzi, immigrato dall’Italia. Gli costò la galera a Boston, eppure il suo schema verrà usato molte altre volte, tanto da diventare un vero e proprio paradigma della truffa finanziaria. In sostanza, viene promesso un ricavo fuori mercato, rapido e indolore; per far vedere che funziona viene restituita una parte del denaro investito e ciò attira altri clienti che pagano con gli interessi, finché non comincia la richiesta di rimborsi e tutto salta. Finirà così anche il mondo cripto? El Salvador nel 2021 ha introdotto il bitcoin accanto al dollaro come valuta ufficiale, ma pochi l’hanno utilizzato. Le finanze dello staterello centramericano sono talmente disastrate che ha dovuto chiedere aiuto al Fondo monetario internazionale, abbandonando la sua speranza, sempre la stessa, di non pagare il pasto. La Repubblica centrafricana s’è anch’essa appassionata e nel 2022 ha affiancato la criptovaluta al franco Cfa (quello dei paesi francofoni). Il comune di Lugano ha in progetto di accettare i pagamenti in bitcoin, così come PayPal. La Cina è diventata il paradiso delle cripto (il 30 per cento del valore degli scambi totali) e, dopo una iniziale opposizione, il governo ha deciso di regolamentarle e tassare i profitti ricavati. Le maggiori banche americane e inglesi hanno impedito ai loro clienti di acquistare in bitcoin, anche per non perdere quote di mercato.
Un clamoroso caso di successo è quello di Giancarlo Devasini con la Tether, la “moneta stabile”. Oggi è uno degli uomini più ricchi d’Italia con un patrimonio stimato in oltre 9 miliardi di euro. Ex chirurgo estetico torinese, sessantenne, a trent’anni scopre il business, dopo una serie di tentativi sbagliati si butta sulla frontiera del denaro digitale. Nel 2014 fonda la società Tether, apre uffici in Svizzera e Costa Azzurra, stabilisce la sede legale in Africa, a São Tomé e Príncipe, al largo della Guinea equatoriale. Lo aiuta Paolo Ardoino, informatico savonese. Il procuratore generale di New York, Letitia James, ha dichiarato che Tether in passato ha mentito sulle sue riserve e ha definito Devasini e colleghi “individui senza licenza e non regolamentati che si muovono negli angoli più oscuri del sistema finanziario”. Oltre l’85 per cento del contante di Tether era conservato in un conto bancario di Bitfinex (una delle principali piattaforme di monete digitali), descritto come un “credito” nei confronti della società sorella. Nel 2021 Devasini ha dovuto pagare 18 milioni alla procura di New York per presunti conflitti d’interesse. Ma la sua impresa è stata per lui una vera cornucopia. Ora che il vento è cambiato potrà muoversi con minori “lacci e lacciuoli”? Tether è il leader indiscusso del settore: la stablecoin viene utilizzata in quattro transazioni di criptovaluta su cinque. I clienti consegnano dollari statunitensi in cambio di un token coniato dall’azienda stessa, chiamato Usdt. Le garanzie collaterali sono buoni del Tesoro, fondi comuni, bitcoin o prestiti garantiti. Su queste “riserve” guadagna il rendimento di mercato. La holding di cui Devasini possiede la metà ha dichiarato profitti per 13 miliardi di dollari l’anno scorso, il doppio di BlackRock, generati principalmente dalla pila di buoni del Tesoro che possiede per sostenere la sua valuta. “Non vi preoccupate, i titoli americani sono un rifugio sicuro”, dice a chi osa mettere in dubbio la solidità di Tether. Ma come fa a esserne così sicuro?
I debiti dello zio Sam
“Pagheremo i nostri debiti in bitcoin”: quella di Trump sembrava una battuta, invece potrebbe essere realtà. Finora l’America non ha rimesso i propri debiti ai suoi debitori, se li è fatti finanziare in dollari sonanti. Adesso qualcuno accetterebbe criptodenaro al posto dei biglietti verdi? Il debito dello stato federale ammonta a circa 34 mila miliardi di dollari, quindi venti volte il valore dei bitcoin esistenti. Dal Duemila a oggi è più che raddoppiato, salendo dal 50 al 122 per cento del pil. Ben 26 mila miliardi sono detenuti dal pubblico, sottoposti cioè al rischio di disaffezione da parte degli investitori. Solo una minoranza (attorno agli ottomila miliardi) è in mano a paesi stranieri. L’Unione europea è il primo sottoscrittore con 1.450 miliardi di dollari, poi c’è il Giappone con oltre mille miliardi e la Cina con 768 miliardi. Sia una “militarizzazione” della valuta legale, sia un suo indebolimento, spingerebbero gli investitori privati e i governi a vendere titoli americani. Se l’Europa, il Giappone, la Cina, colpiti dai dazi rallentassero gli acquisti, i tassi d’interesse di mercato schizzerebbero verso l’alto, il Tesoro Usa andrebbe in difficoltà e l’economia in recessione.
Il predominio del dollaro, oltre alla potenza militare, ha consentito un enorme deficit con l’estero e un disavanzo federale attraverso il quale il mondo si rifornisce di dollari. E’ quello che Valéry Giscard d’Estaing, presidente della Repubblica francese, definì “privilegio esorbitante”. Ma non sempre l’ombrellone a stelle e strisce ha protetto dalla tempesta il resto del mondo. Abbiamo citato il 1971, poi c’è stato il crac del 1987 innescato proprio dall’indebitamento americano. L’economista Giampaolo Galli ricorda che il grande aumento dei “deficit gemelli” (quello con l’estero e quello del bilancio federale), provocato dalla politica economica di Ronald Reagan, ebbe effetti importanti sulla bilancia dei pagamenti e sul tasso di cambio del dollaro. La moneta americana inizialmente si apprezzò esageratamente per via dell’aumento dei tassi di interesse deciso dalla Federal Reserve, allora guidata da Alan Greenspan. Non poteva durare e arrivò presto la paura di una svalutazione, il dollaro cominciò a capitombolare creando uno sconquasso per tutte le valute. Nel 1985 si raggiunse un’intesa per stabilizzare i cambi, ma non fu sufficiente; due anni dopo il G7 nel quale era appena entrato anche il Canada, firmò gli accordi del Louvre. Nelle settimane successive emersero divergenze fra la Fed e la Bundesbank, il 29 ottobre a Wall Street tutti gli indici precipitarono provocando la più grave caduta della Borsa dopo quella del 1929. E allora la Germania era considerata l’alleato più fedele nell’Europa continentale, non il nemico numero uno come pensano oggi gli stregoni di Trump.
Non siamo a quel punto, però i deficit gemelli esistono ancora. Il Cbo, Congressional budget office, un organismo indipendente che ha il compito di monitorare le finanze pubbliche per conto del Congresso, prevede che il debito federale salirà a 50,5 mila miliardi nel 2034. La preoccupazione principale che emerge dal rapporto riguarda la spesa per interessi, che crescerebbe dal 3,1 al 4,1 per cento del pil (più o meno il livello attuale dell’Italia). Il costo del debito supera già oggi gli investimenti per la difesa e supererà in un prossimo futuro il programma Medicare. Le agenzie di rating hanno tolto la tripla A ai titoli del Tesoro o hanno emesso un giudizio di outlook negativo. Trump insiste su una ricetta semplicistica: ridurre il disavanzo con l’estero con i dazi, i quali nello stesso tempo dovrebbero servire a tagliare le tasse senza aumentare il deficit interno. Una nuova versione della “economia del voodoo” come veniva chiamata quella di Ronald Reagan.
Il presidente americano, dunque, non può fare troppo il gradasso: dietro la sua ostentata protervia si nasconde una grande debolezza. Un eventuale ricorso massiccio al criptodenaro è ai suoi occhi un modo per non pagare i vecchi debiti e mascherare i nuovi. The Donald grida, minaccia, brutalizza chi gli sta accanto, ma alla fine abbaia alla luna, non alla Cina. Concludiamo questa cavalcata nell’oscuro mondo cripto e le nostre idee restano confuse. Tutto dipende da come si usano le criptovalute, è una banalità, è vero anche per le vecchie monete o per l’intelligenza artificiale. Se i nuovi mezzi di pagamento servono per rendere più ampi e semplici gli scambi, ben vengano. Se finiscono in mano a un pugno di maghi della pioggia, allora è meglio alzare la guardia. Anche questo è ovvio, ma cosa di meglio possiamo offrire?