Un libro brusco e sincero nel quale la scrittrice scrive la sua storia con “quella che per un uomo è audacia e per una donna è scandalo”
Anche se ci hanno definito “il sesso debole”, sappiamo benissimo che, con tutte le azioni che siamo in grado di eseguire contemporaneamente, meriteremmo il soprannome di Ursus, il gigante buono di Quo vadis dalla forza eccezionale. Ma siccome da sempre il sesso forte è quell’altro, tocca misurarsi con lo stereotipo della debolezza. Eppure conosco donne forzute e uomini che non sanno sollevare uno sgabello, femmine che sanno “prendere il toro per le corna” e maschi che si perdono in un bicchier d’acqua. Tipe sicure del fatto loro che, se vogliono sedurre qualcuno, procedono fino alla vittoria e timidoni che non sanno mai quando dichiararsi.
Tant’è, dopo anni di rivendicazioni, vittorie varie, e femminismi mutanti ma persistenti, siamo sempre lì a combattere contro pregiudizi, ingiustizie, sopraffazioni. Esagero? Dopo aver letto con passione e un inevitabile gioco di rispecchiamenti “Volevo essere un uomo” di Lidia Ravera (Einaudi, 140 pagine, 15 euro) rispondo purtroppo che no, non esagero. E dire che in trent’anni di amicizia ci siamo spesso divertite a battibeccare sull’eccessiva benevolenza, chiamiamola così, verso gli uomini della sottoscritta e il rigore monogamico dell’autrice. Scrivendo poi, specie se in modalità autobiografica, capita di raccontarsi come nemmeno nei rapporti stretti si riesce a fare. E in questo libro brusco e sincero Ravera scrive la sua storia con “quella che per un uomo è audacia e per una donna è scandalo”. Lo scandalo di dirsi convintamente femminista e insieme una che avrebbe preferito nascere maschio. Dall’infanzia alla vecchiaia procede con motivazioni incontestabili, con l’elenco ragionato dei privilegi che, in quanto femmina, le sono stati sottratti, che all’intero sesso femminile sono tuttora sottratti.
Non si tratta di rivendicazioni già sentite, già viste, ma di una lucida descrizione dei fatti, interiori ed esterni, vissuti da una bambina prima, un’adulta poi, il cui destino può essere obiettivamente considerato invidiabile. Siamo cioè di fronte a una personalità femminile di successo, che ha attraversato da protagonista le varie fasi di una generazione in rivolta. Eppure, eppure. Dal primo sguardo di una madre che non ha remore a dire “volevo un maschio” secondo il noto auspicio “auguri e figli maschi” – oggi fortunatamente in disuso, ma non ai tempi della giovinezza dei nostri genitori –, all’impegno politico nel non meno maschilista ’68, alla vecchiaia che travolge con inaspettate nuove discriminazioni e vulnerabilità, si prende atto dell’inevitabile fragilità che un destino femminile, qualsiasi destino femminile, si trova a scontare nella società governata e diretta dagli uomini. Uomini violenti e guerrafondai, perché “la storia del patriarcato è storia di guerre”. Lo stiamo sperimentando attualmente con minacciosa chiarezza.
Forse, come riflette Ravera nelle belle pagine finali del libro, non saranno altre battaglie femministe a modificare radicalmente i rapporti fra i sessi, ma l’evolvere della ricerca scientifica che libererà la donna dal suo troppo spesso punitivo ruolo materno. Oppure certi sotterranei cambiamenti fisici che annunciano una società sempre più “fluida”. Cambiamenti molto più vicini di quel che crediamo se il più nazionalpopolare degli appuntamenti spettacolari della stagione, ossia il Festival di Sanremo, mostrava quest’anno in modo divertente quanto indicativo maschi in versioni addolcite e “fluide”, mentre le cantanti apparivano aggressive e dominanti. Un segno di cosa ci aspetta o solo un modo di giocare col corpo e la moda che non cambierà sostanzialmente nulla?
Troppo presto per dirlo e comunque, per restare in tema citando una famosa canzone di Francesco Guccini del 1978, “noi non ci saremo”.