“La mia vita era uno strano miscuglio fra la carne da tagliare nei giorni feriali e i sogni da mettere in caldo a suon di gol alla domenica. Grazie all’Inter, ho vinto il Mondiale del 1982, segnando nella finale contro la Germania il terzo gol dell’apoteosi”. Intervista
“Vengo da Sonnino, un borgo di settemila abitanti, posizionato in provincia di Latina, ai piedi del monte delle Fate. Lì ci conoscevamo tutti ed era praticamente impossibile sentirsi soli. Quando andavi in piazza, c’era sempre un amico ad aspettarti. Mio padre Antonio faceva il muratore a Roma. Si svegliava alle quattro del mattino e la sera tornava a casa esausto, perché le energie le aveva lasciate tutte sul luogo di lavoro. Gaspare Ventre, invece, da Sonnino non si era mai mosso. Faceva il barbiere, ma era convinto di essere venuto al mondo non per tagliare capelli, ma per allenare. Aveva messo su una squadra di baldi ragazzi, che portava con orgoglio in giro per i tornei di paese. Di talentuosi ce n’erano tanti, ma la fortuna avrebbe riservato un posto d’onore solo per me”.
Alessandro Altobelli, Spillo per sempre, anche ora che di lui tutto si può dire meno che sia un fuscello, racconta una storia che sembra sia stata scritta da una delle fate che la leggenda vuole abitino il monte che sovrasta il borgo incantato, dove è nato quasi settant’anni fa. Una storia di passioni, amici, stadi stracolmi, reti violate, emozioni, flash leggendari, gloria e radici, quelle che lo legano ancora, anche dopo che ha eletto Brescia a sua città di adozione, ai luoghi della sua infanzia. Dove ha imparato a vivere, prima che a fare il calciatore con licenza di fare gol a raffica che per contarli ci sarebbe voluto il pallottoliere.
“Mio padre mi ha insegnato a fare le cose giuste, non solo quelle piacevoli ed esaltanti che da subito avrei voluto fare. Anche per lui il pallone era importante, ma intanto bisognava lavorare. Così, una volta finita la scuola media, la domenica indossavo i panni del calciatore, ma prima e dopo, dal lunedì al sabato, mi ritrovavo a lavorare dietro il bancone della macelleria di Ermanno Merluzzi, che peraltro aveva un cognome più da pescheria. La mia vita era uno strano miscuglio fra la carne da tagliare nei giorni feriali e i sogni da mettere in caldo a suon di gol alla domenica”.
Poi, quasi all’improvviso, arrivò la squadra del capoluogo, quel Latina vestito di nerazzurro, i colori del destino…
“Con il barbiere di Sonnino avevamo allestito una squadretta juniores che, dovunque andasse, si faceva rispettare. Io segnavo già tanti gol, quando un bel giorno un signore, che di nome faceva Nando, mi vide giocare e mi portò a Latina. Un maestro di scuola, che veniva a prendermi dopo gli allenamenti, quando ancora giocavo nella squadra juniores, vedendomi magro e allampanato quale ero, mi affibbiò quel soprannome, Spillo, che mi sarebbe rimasto appiccicato per tutta la vita. L’anno dopo esordii in Serie C e feci subito gol, sia nella prima che nella seconda partita. Ci capitò di giocare un torneo, che si rivelò una vetrina inaspettata. Qualcuno venuto da Brescia mi notò e mi segnalò a chi di dovere. Arrivai lì nel 1974, due settimane dopo la bomba di Piazza della Loggia. Debuttai in Serie B e ci rimasi per i tre anni precedenti il salto che definire triplo è riduttivo, con cui sono planato direttamente a San Siro, sponda Inter, la squadra di cui ero stato tifoso sin dai tempi del barbiere Gaspare e del macellaio Ermanno. L’emozione non feci in tempo a vederla in faccia. Cominciai da subito a giocare e a segnare, vincemmo due volte la Coppa Italia, poi la Nazionale, lo scudetto. Tutto. Ogni sogno si è avverato. Uno dopo l’altro, senza tregua”.
All’Inter lo con 210 gol ha superato tutti i cannonieri all time, a eccezione di un certo Giuseppe Meazza…
“All’Inter in undici anni, al di là dei gol, che mi hanno reso secondo solo alla leggenda che ha dato il suo nome allo stadio più stellato d’Italia, ho vinto tutto il vincibile e l’unico rammarico di una carriera, che è andata oltre l’immaginazione, è di non averla chiusa con indosso l’unica maglia che ho veramente amato. Grazie all’Inter, ho vinto il Mondiale del 1982, segnando nella finale contro la Germania il terzo gol dell’apoteosi, quello seguito dal famoso gesto del presidente Pertini, che attestava in modo eloquente l’impossibilità della rimonta. Un gol, che resterà per sempre nella memoria collettiva il mio marchio di fabbrica, fortissimamente voluto, perché, quando al settimo minuto sono subentrato a Ciccio Graziani, ho pensato non solo alla Coppa da sollevare, ma anche al segno indelebile che volevo lasciare. E così, quando Bruno Conti si è involato da un’area all’altra, io gli sono corso accanto coast to coast, aspettando, come ho sempre fatto, l’attimo fuggente del gol. Mi chiedono spesso perché anche in quella circostanza mi sono limitato alla consueta mano alzata, senza eccedere, come ci si sarebbe aspettato, data l’eccezionalità del momento, rimanendo lontano anni luce dalla felicità gridata e platealmente esibita da Marco Tardelli in occasione del gol precedente. Scherzando potrei dire che, esultando in quel modo per ciascuno dei miei trecento e passa gol, non sarei arrivato a lambire i miei primi 70 anni. Al di là della battuta, per me il gol è sempre stato l’amico fedele che ti torna sempre a trovare. Un amico, a cui viene spontaneo dare del tu e salutare senza smancerie, ma con una pacca sulle spalle”.
L’allenatore a cui deve di più?
“Sono stati tanti, penso soprattutto a quelli che mi hanno convocato e fatto giocare in Nazionale, come Enzo Bearzot e Azeglio Vicini, ma al primo posto metto Eugenio Bersellini. Lui mi ha voluto all’Inter e, conseguentemente, cambiato la vita. Con lui sono stati cinque anni bellissimi. Mi ha sempre trattato come un figlio e mi ha insegnato tutto quello che mi mancava. Un grande allenatore e, prima ancora, una persona per bene, con nel dna l’umanità speciale, che non avrei più ritrovato”.
Come è stato possibile che lei, interista nella pelle e nell’anima, sia poi finito a giocare nella squadra rivale per antonomasia, quale era e resta la Juventus?
“Dio solo sa quanto mi è costato non rimanere all’Inter vita natural durante, ma non sono passato direttamente alla Juventus. Ho stracciato un contratto da un miliardo e quattrocento milioni netti delle vecchie lire, perché non volevo restare alla corte di un allenatore, Giovanni Trapattoni, e di un presidente, Ernesto Pellegrini, che si sentivano oscurati dalla mia popolarità e ne erano gelosi. La mia colpa era quella di essere diventato, agli occhi dei tifosi e dei compagni di squadra, più importante di loro. Ho giocato un Europeo, quello del 1988, senza una squadra, sino a quando ho accettato l’offerta, peraltro convinta e affettuosa, di Giampiero Boniperti, ma il vero Altobelli è rimasto per sempre nascosto nella nebbia di Milano. Quei due mi hanno rovinato la carriera, stroncandola sul più bello”.
La partita indimenticabile con la maglia nerazzurra…
“Quella del 4 a 0 alla Juve, dove ho messo insieme tre gol e un assist. Roba da finimondo, prima ancora che da cineteca”.
Che vuoi fare da grande?
“Sono un pensionato felice. Ho moltiplicato i miei ruoli. Sono marito, padre e nonno”.
Piccoli Spilli crescono?
“Carolina ha 14 anni e gioca a calcio qui a Brescia. Leonardo ha due anni di meno, ma ha cominciato a tirare i primi calci con la stessa passione della sorella. Benedetta ha solo tre anni e deve ancora decidere, lei sì, che sa cosa fare da grande”.
E Sonnino?
“Vivo a Brescia, ma vado spesso da mia mamma che è rimasta lì. Ogni volta mi vizia, anche più di quando ero bambino. La specialità di Sonnino sono le tagliatelle al sugo di capra. Sono arciconvinto che nessuno le faccia buone come mia madre, che continua a impastarle, ora come allora, con le sue mani. Sonnino è il luogo del cuore. Uno di quelli che ti rimangono dentro, dovunque sei, come solo i gol più belli della vita”.
Antonello Sette