Ci sono le condizioni per vedere le categorie produttive organizzare un evento anti dazi, modello 2018/2019
Erano previste 1.500 presenze ma alla fine il pubblico fu stimato in 3 mila imprenditori. Era il dicembre del 2018 a Torino e in agenda c’era il sostegno alla Tav con Lione. Ad organizzare l’assemblea alle Ogr furono 12 sigle di associazioni di impresa in rappresentanza del 65 per cento del pil e (anche) di 13 milioni di lavoratori dipendenti. Da qui alla definizione di “partito del pil” il passo fu breve e per rincarare la dose l’allora presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, sintetizzò il pensiero dei suoi 3 mila colleghi sostenendo che “la politica è una cosa troppo importante per lasciarla solo ai politici”. Sono passati più di 6 anni e all’interno di quelle stesse associazioni l’idea di replicare quell’esperienza si sta pian pianino facendo strada. Il tema è diverso, le controparti quanto mai ma in comune c’è la difesa del benessere economico del paese.
E allora contro i dazi e contro il trumpismo c’è bisogno di un “partito del Pil” – per carità, temporaneo – perché la politica italiana si mostra paralizzata dai contrasti interni e più orientata alla ricerca di un posizionamento sui social che alla sostanza delle cose. Ma anche perché c’è un rinnovato bisogno del protagonismo delle imprese a tutto tondo, dalle manifestazioni pubbliche in nome dell’interesse nazionale alla decisioni di politica industriale che vanno prese, dalla difesa della libertà economica a ribadire il valore politico-antropologico dei commerci aperti. La minaccia di Trump di frizzare l’economia italiana con un 25 per cento di dazi “sull’auto e su tutto il resto” è un’ipoteca grande come una casa sul futuro di un paese che era uscito dalla Grande Crisi degli anni dieci con uno straordinario slancio sulle esportazioni cresciuto di anno in anno fino a diventare quasi identitario.
Un’assemblea nazionale di imprenditori contro le tariffe di Trump segnerebbe una presa di autonomia dalla politica di cui in questa fase si sente il bisogno. Gli imprenditori hanno riversato un ampio consenso elettorale sulla coalizione di centro-destra e in particolare su Fratelli d’Italia ma i fatti ci hanno dimostrato come questa valanga di sì non possa tramutarsi in una delega in bianco. Per carità, è evidente che non esiste agli occhi degli imprenditori una vera alternativa: il Pd che si batte a fianco della Cgil nell’anacronistica tenzone contro il Jobs act è considerato lunare dagli uomini dei distretti e delle filiere. Ma ciò non toglie che l’agenda del centro-destra agli occhi di quelle stesse persone appaia spesso politicista. Prendiamo il Veneto, territorio-chiave dell’impresa italiana, dove si discute quasi solo esclusivamente del terzo mandato del governatore Luca Zaia quando invece si dovrebbe ragionare sulla fine di un modello, sulle vecchie tentazioni a recitare ancora la ninna nanna del piccolo-è-bello e si dovrebbe pensare a come innovare. Ma l’agenda del governo è anche così condizionata dalla continua ricerca di un posizionamento eccentrico da parte del capo dei leghisti e dalla difficoltà di mediare da parte di Giorgia Meloni che tutte le questioni legate alla più grave crisi industriale del nuovo secolo passano in secondo e terzo piano.
Questi equilibri politici stanno però diventando una camicia di forza per il partito del Pil. Lo si vede da qualche sondaggio che impietosamente segnala il calo di popolarità del governo, dai comunicati sempre più allarmati emessi da una Confindustria peraltro prudente e collaborativa, dalle preoccupazioni dei territori, dal montare della cassa integrazione e dall’allungarsi dell’elenco delle aziende in crisi.
Per tutta una fase, a cominciare dalla stessa assemblea di Confindustria, Giorgia Meloni è stata abile nel dirottare verso Bruxelles le ansie degli uomini del Pil e nelle assemblee confindustriali si sono ascoltate svariate filippiche anti-europee. Ursula Von der Leyen è diventata per una fase una sorta di punching ball. E’ ovvio che colpe la Ue ne ha a sufficienza, che le contraddizioni del Green Deal sono ormai squadernate davanti a tutti e che il cambio di rotta sembra quanto mai incerto specie quando si proclama la semplificazione e poi si ricade nelle vecchie pratiche. Ma il partito del Pil comincia a pensare che non gli può bastare snocciolare la giaculatoria anti-Ue. E si muove da solo. Prendiamo le intenzioni e i primi tentativi di convertire l’indotto dell’automotive verso l’industria della difesa e dell’aerospazio, altro non sono che una risposta di vitalità del sistema imprenditoriale e al tempo stesso un canale per indirizzare l’inquietudine di questo tempo. Darsi un obiettivo, non cedere allo sconforto.
Il recupero di autonomia a partire dalla questione dei dazi serve anche perché il governo fatica a trovare il bandolo della matassa della crisi industriale. Da una parte si tenta di negarla con un uso mirato delle statistiche internazionali dall’altra si sovraccarica di significati la crescita dell’occupazione ma si saltano a piè pari le contraddizioni. Avete visto o letto qualche esponente del governo parlare del calo di produttività del sistema Italia? O prendere in mano il tema dei salari per affrontare quel nodo che con grande efficacia Luca De Meo sintetizza così: “Un operaio Renault non si può permettere di comprare la Dacia che noi stessi produciamo”.
Poi non si può dimenticare il tempo perso e la retorica diffusa a piene mani per varare un inutile legge sul made in Italy, scritta e approvata per allestire sagre paesane, per distribuire mance, per largheggiare nella distribuzione di medaglie di cartone. Se volete difendere il made in Italy, beh l’occasione c’è. I dazi, per l’appunto.
Anche la recente manovra di bilancio è stata per le imprese una secchiata di acqua fredda. L’Ires premiale, provvedimento sul quale la Confindustria aveva puntato tutte le sue carte, si sta rivelando un bluff e già si chiede di modificarla. Molto meglio la vecchia Ace. Sono stati tolti i soldi del fondo automotive quando ce n’era più bisogno. Transizione 5.0 è un tormentone e in questo caso si tratta di un provvedimento disegnato male, scritto da consulenti per i consulenti. La delusione è tale che lo stesso Emanuele Orsini sostiene che le tradizionali manovre finanziarie sono trappole per le esigenze delle imprese.
Si scambiano tutt’al più figurine. Le imprese invece hanno bisogno di una programmazione almeno triennale. Un nuovo protagonismo del partito del Pil sarebbe dunque una risposta anche a queste contraddizioni e amnesie, rinsalderebbe i rapporti associativi un po’ allentati nel corso del ‘24, vorrebbe anche dire combattere quell’incertezza che rischia di diventare un clamoroso alibi. Gli investimenti privati lo scorso anno sono caduti rovinosamente, il credito alle imprese si è fatto più stretto ma anche le code agli sportelli delle banche più corte. Nel frattempo però l’asticella della competizione è salita, tutti parlano di investimenti nell’AI e noi stiamo a romperci la testa con il cambio di macchinari obsoleti che hanno almeno oltre 12 anni di vita media.
Rifare come a Torino nel 2018 ha tutte queste valenze. Come allora c’è da rimettere in testa all’agenda il tema della crescita, c’è da riconquistare per il partito del Pil una centralità che ha perso. Insomma chi andrà sul palco – statene sicuri – non parlerà solo di vini, ortaggi e formaggi ma di un pezzo di futuro dell’Italia industriale.