Un pomeriggio con Simonetta Gianfelici e Marpessa Hennink a parlare di un’estetica che nella moda non è mai davvero cambiata, e dove impera il “tokenism” (una donna non conforme, una agé, una alternativa). “Oggi molte minoranze sono rappresentate perché rispecchiano un bacino di nuovi consumatori”
Per loro, la nostalgia è destinata a chi non ha più nulla da dire, a chi rimane imbalsamato tra i ricordi. Marpessa Hennink e Simonetta Gianfelici, mitologiche supermodelle che evocano l’epoca d’oro della moda tra gli anni Ottanta e Novanta, non si voltano indietro. Hanno fatto della bellezza il loro mestiere, senza mai farsene possedere; l’hanno attraversata senza rimanerne prigioniere; l’hanno vissuta nelle sue metamorfosi, nelle sue contraddizioni, nelle sue verità e nelle sue ipocrisie. Soprattutto, non hanno permesso a nessuno che i loro lineamenti (im)perfetti le potessero far archiviare dentro la categoria “bambola da collezione”, come peraltro hanno dimostrato di saper fare, in tempi recentissimi, sia Bianca Balti, della quale nessuno dimenticherà il perfetto retort a Carlo Conti all’ultimo Festival di Sanremo (“sei un esempio per tante donne”, “soprattutto noi donne siamo un esempio per tanti uomini”) sia Elisabetta Dessy, sessantasei anni, presenza fissa alle ultime sfilate milanesi con i lunghi capelli bianchi e il volto bellissimo della sua età. Nella moda che, per tacitare l’anima e i social, in passerella fa professione di “tokenism” (una modella di peso non conforme, una di età superiore ai quarant’anni, una di bellezza irregolare), loro ne sono state, in modo diverso, portabandiera anni fa. Un breve ripasso: Marpessa, sei lingue parlate fluentemente, nominata dalla poco fantasiosa stampa di settore la “contessa delle passerelle”, nata ad Amsterdam da madre olandese e padre olandese/surinamese di origine africana, è stata musa di Gianni Versace, Rei Kawakubo di Comme Des Garçons, Karl Lagerfeld, Valentino, Christian Lacroix e altri leggendari stilisti, nonché ambasciatrice mondiale di Dolce & Gabbana.
Ha scelto di abbandonare le scene, senza rimpianti, nel 1993, per dedicarsi al design d’interni e alla fotografia. Simonetta (le supermodelle in apparenza non hanno mai avuto un cognome), romana, bionda hitchcockiana, designata “l’angelo della pedana” per il suo ruolo di emblema visivo del profumo Angel di Thierry Mugler, adorata da Vivienne Westwood, Jean Paul Gaultier e Gianfranco Ferrè, invece si è rimessa in gioco, sfidando il tempo con la stessa eleganza con cui lo affronta, sempre intenta a promuovere il lavoro parallelo di talent-scout di giovani designer, cui spesso presta volto e corpo per regalare loro visibilità: se la moda è ossessionata dall’idea del comeback, del ritorno, si sono mosse in direzioni opposte, pur possedendo la stessa ironia e consapevolezza. “La bellezza è una promessa di felicità” diceva Stendhal, ma loro ne hanno capito il sottotesto: è anche una costruzione sociale, una trappola dorata, un’arma a doppio taglio. Perché la felicità, come la moda, è una questione di saper scegliere quando restare, quando andarsene e (casomai) quando ritornare. Le raggiungiamo in un’intervista telefonica a tre, partendo proprio da oggi: quando si guardano intorno – tra passerelle, social e pubblicità – vedono tipologie autenticamente belle o sentono che anche la piacevolezza fisica si stia omologando in una sorta di algoritmo estetico universale? Oggi si predica l’inclusività, la body positivity, la diversità, ma sono solo slogan o la moda ha davvero cambiato il suo sguardo? “Sinceramente, vedo molta omologazione, dovuto anche alla dittatura di filtri, app per modificare le foto, tutorial di make-up”, risponde Simonetta. “Anche se, sulle passerelle c’è un tentativo di trovare volti nuovi, magari non canonicamente classici, questo non basta: bisognerebbe cambiare l’intero sistema della moda per raccontare la diversità dei corpi, a cominciare dal disegno di abiti che rispondano a differenti anatomie, più flessibili, più reali, più concrete, e questo ancora non sta succedendo. La moda prende tante direzioni sociali in base alle leggi del marketing, ma spero che proprio per questo si possa realizzare un cambiamento: oggi molte minoranze sono rappresentate anche perché rispecchiano un bacino di nuovi consumatori, e questo potrebbe costituire anche il motore di un cambiamento sociale”, risponde Simonetta. Marpessa, con la sua voce profonda, sbotta: “Sono orripilata dai volti delle sfilate che vedo online, tutti ingrugnite, ed è colpa dei casting director, cioè di chi seleziona modelli e modelle per sfilate, campagne, editoriali. Una professione che trenta, trentacinque anni fa, non esisteva: venivamo scelte o direttamente dai fashion designer oppure da agenti sguinzagliati per le città del mondo alla ricerca di volti e corpi che contenessero anche un minimo di personalità. Guardo i défilé e rimango stupita dall’anonimità delle mannequin di oggi che spero ovviamente di non offendere. Però non le distingui l’una dall’altra, sono ritornate a essere bianche, caucasiche, magrissime. Qui parla la mia parte africana: anche le ragazze di colore sono standardizzate secondo codici quasi geometrici: lunghe lunghe, puri segni grafici della medesima tonalità di carnagione che non rispetta la ricchezza di un continente che conosce tante sfumature sia di epidermide, sia di fisicità. Il mondo della moda dice di volere diversità, corpi autentici, unicità. Ma ci crede davvero o sta solo aggiungendo nuove etichette al supermercato della bellezza? Vorrei solo portare un esempio: mia figlia, diciannove anni, ha iniziato a fare la modella ma ha deciso di smettere quando le hanno detto che il suo bacino superava di poco gli ottantanove centimetri, cioè esattamente la misura che avevo io alla sua età: non mi sembra che certi stereotipi siano così cambiati”.
Quindi, il problema è che tanti bei discorsi sul gender, sull’orgoglio di “sei come sei”, corrono il rischio di diventare dei trend come, per esempio, il ritorno di un certo colore o l’affermarsi di una nuova voga? “Eccome”, rispondono all’unisono. “Per evitarlo”, è Simonetta a parlare “che l’industria della moda non si avvalga di un certo tipo di temi per poi considerarli come semplici elementi passeggeri. Ma in questo anche le modelle, grazie ai social – penso alla top sud-sudanese Adut Akech che pubblicamente denunciato la sua depressione o a Bella Hadid che ha preso delle posizioni politiche molto nette rispetto al conflitto israeliano-palestinese – possono veicolare messaggi importanti: rispetto a noi, hanno una voce. Ma farla sentire richiede coscienza, profondità di pensiero, giudizio, il senso di una maggiore responsabilità: significa avere dei valori, insomma”. Si parla di come la cultura serva anche a valorizzare il mestiere di chi indossa vestiti. Saremo state anche dei “manichini semoventi e muti”, dice ridendo Marpessa, ma lei e Simonetta erano anche interpreti, mimi, performer: “Studiavamo le riviste di moda, parlavamo con i designer, talvolta guardavamo con loro i bozzetti per entrare nella loro filosofia, e questo richiedeva impegno e passione: adesso sembrano robottini senza alcun interesse per l’idea di stile che un brand vuole comunicare. Ricordo con gratitudine Azzedine Alaïa e Karl Lagerfeld che ci spronavano a essere noi stesse, a muoverci secondo la musica, a seguire il nostro ritmo interiore”, prorompe. “Sì, ma c’erano ritmi diversi, avevamo più tempo per entrare in sintonia con stilisti e fotografi: oggi è tutto molto più veloce, rapido, industriale”, assicura maternamente Simonetta. Carnagione botticelliana, sguardo da pulzella rinascimentale, ma dalle proporzioni considerate opime per una top, lei è stata un elemento di rottura nella lunga teoria di colleghe filiformi. Così come anche le occhiaie evidenti, i denti irregolari, e “quell’aria esotica”, hanno trasformato Marpessa in un simbolo di freschezza nella narrazione di moda incarnata da simil-Barbie negli Ottanta. Due outsider, insomma, che a loro modo hanno dovuto lottare per imporsi, “anche se non più di tanto”, chiosa Simonetta.
Chiediamo loro, visto che adesso si discute tanto di male gaze, cioè di come l’apparenza sia sempre stata filtrata da uno sguardo maschile, bianco e occidentale, hanno percepito questa imposizione o se invece la loro bellezza è stata un campo di battaglia su cui hanno potuto giocare con le loro regole. Se la prima pensa di non averlo avvertito “perché venivo scelta dai designer, con cui potevo conversare e dire la mia”, Marpessa ci regala una perla succulenta. “Valentino ci faceva stringere il seno con una fascia strettissima che lo comprimeva fino a farci male, persino a me che ho sempre sognato di avere il florido decolleté di Simonetta. Ma una volta – forse avevo il ciclo, non ricordo bene, quindi avevo tette più sensibili e più evidenti – poco prima di entrare in pedana mi sono tolta quel nastro soffocante e la scollatura si è riempita. Non dimenticherò mai gli applausi scroscianti del pubblico e dei buyer che comprarono in massa proprio quell’abito dove mi ero liberata”. Simonetta, permetta una domanda diretta: ma a lei, chi gliel’ha fatto fare di tornare sulla ribalta? “Da un lato spero davvero, avendo un volto conosciuto, di portare avanti un’estetica che appartiene a firme nuove, al lavoro su concetti forti come la sostenibilità o una ricerca sula vestibilità contemporanea. Dall’altro, mi rifiuto di accettare il concetto di obsolescenza, che tendiamo ad applicare anche alle persone, oltre che alle cose: non è un atto di coraggio, quanto una riscrittura del racconto del corpo femminile. Non è certo una rivoluzione, quanto una rivelazione: dimostrare che l’intensità, la presenza, il magnetismo, non hanno nulla a che fare con la giovinezza o la freschezza, si possono arricchire di profondità, di ricchezza, di contenuti. Così come credo che sia arrivato il momento di ridare valore ai prodotti, credo che ora sia giunta l’ora di restituire valore all’autenticità, all’esperienza, alla sostanza”.
E lei, Marpessa? Perché, al contrario di Simonetta, ha smesso? “La verità è che si diradavano le richieste e io non mi sentivo più a mio agio in un mondo che celebrava il grunge, il disordine, una certa sciatteria programmata e prevista. E poi, visto che l’ha tanto divertita l’aneddoto su Valentino, gliene racconto un altro: durante il lockdown imposto dalla pandemia, non potendo andare dal parrucchiere, mi è cresciuta una lunga frezza di capelli bianchi di cui andavo e vado orgogliosissima. Quando finalmente ci è stato concesso di uscire, il mio agente mi ha imposto di tingerla, perché secondo lui, mi invecchiava e non andava bene, se avessi voluto continuare a lavorare. Fatto sta che ho ceduto, mi sono fatta tutta castana e, indovini? Il lavoro non è arrivato lo stesso…”. E ride. Oggi vediamo tutorial su YouTube su “come camminare come una modella” e video su TikTok che spiegano i “segreti della posa perfetta”. Simonetta: “Puoi studiare la camminata, allenarti davanti allo specchio, imparare a posare con angolazioni perfette… ma quel quid, quel magnetismo, resta una questione di verità interiore. Non c’è tutorial che possa insegnarlo, perché la bellezza è tutto fuorché perfezione: io ho imparato molto, ma dall’esperienza”. Marpessa: “Oggi tutto è tecnica. Ti spiegano come ottenere lo sway perfetto, come muovere le mani, come inclinare il viso per la luce giusta. Ma se fosse solo questo, le modelle non avrebbero mai avuto carriere così diverse, così irripetibili e non ne ricorderemmo soltanto una manciata. Certo, c’è chi impara i trucchi del mestiere e diventa impeccabile, ma l’eleganza dei gesti e dei movimenti non segue regole predefinite”.
Simonetta: “Della bellezza amo il mistero: è un enigma inafferrabile, perché è mutevole eppure statica. Ciò che un’epoca esalta, un’altra dimentica: le donne opulente di Rubens, incarnazione del desiderio di un tempo, oggi cedono il passo a nuovi canoni imposti dallo sguardo collettivo. Eppure, a commuoverci, sono sempre le stesse cose – l’armonia di una sinfonia, l’equilibrio di un volto che sfida le regole. Come se la bellezza ci cercasse e ci sfuggisse, perché noi le abbiamo insegnato proprio quello, a cercarci e sfuggirci. Che è poi l’unico modo per sentirsi vivi”.