Estetiche di ritorno. Il progressivo ritorno alla dimensione corretta del lusso

Se nello stile presentato sulle passerelle tira aria di restaurazione, con uno sguardo fin troppo pedissequo agli Anni Cinquanta e la fine certificata del woke anche fra le modelle, le strategie in corso vedono un forte recupero della gestione famigliare e nella comunicazione il progressivo abbandono delle “community” oceaniche. E almeno in questo, non si tratta di uno sguardo verso il passato

Le sfilate milanesi inverno 2025 appena concluse e quelle parigine in corso hanno confermato le impressioni dei primi giorni e quanto avevamo scritto sul “Foglio” una decina di giorni fa, e cioè che i brand che hanno dimostrato di sapere tenere la strada sdrucciolevole del momento sono quelli familiari o dove uno dei membri, fosse pure un erede, ha saputo imporsi su una messe di manager, in genere dell’area commerciale, che si sono palesemente dimostrati incapaci di superare i confini del protocollo e che di fronte al calo dei fatturati, talvolta vertiginoso, hanno scaricato ogni colpa sui designer ai quali avevano imposto scelte ufficialmente “sicure”, in realtà pericolosissime quando non demenziali, perché nella moda non c’è come andare sul sicuro in un momento di crisi di vendite e di affezione da parte del pubblico per finire nel burrone.

Bisogna saper rischiare, ma anche leggere oltre lo scroll del social preferito, capire, ascoltare, viaggiare, tutte cose che nessuno fa più e che per anni, in effetti, non sono state richieste, le cose andavano benissimo, cullando una pletora di mediocri nella convinzione dell’infallibilità. Mentre si attende una nuova soluzione creativa da Gucci, in Ferragamo è stato sostanzialmente richiamato al comando Michele Norsa, il manager straordinario che per decenni ha affiancato i più importanti gruppi italiani nella quotazione, compresa la stessa Ferragamo, e che da tempo si era ritagliato, come giusto per la lunghissima esperienza, un ruolo senatoriale: il suo ultimo exploit, essendo anche un ottimo giocatore di golf, era stata la Ryder’s Cup accanto a Lavinia Biagiotti, proprietaria del club Marco Simone.

Altrove si fanno valutazioni profonde, le famiglie riprendono il controllo, se non azionario, gestionale, la moda vira alla restaurazione, c’è un ovvio grande timore per i dazi minacciati da Trump, e sempre gli Stati Uniti certificano, com’era inevitabile dopo la sua elezione, la fine del woke modaiolo, sia nelle scelte delle modelle sia nel tipo di moda proposta (vedere a pagina 2 e 3) e il recupero di stilemi che sembravano ormai conservati negli archivi. L’estetica del sottotono, insieme con il lusso quieto e tutte le espressioni di un commercio rasserenante che sono piaciute tanto dopo lo choc del Covid, una distesa di beige e di blu bon ton, è stata spazzata via da un nuovo massimalismo plasticamente rappresentato da una messe di bustini e di gonne fascianti o ricchissime che, non a caso, richiamano la fine dei Quaranta del New Look, uno stile post-conflitto mondiale, e i Cinquanta modello “sirena”. Lo si è visto al Festival di Sanremo, lo si è visto agli Oscar, lo si è visto a Milano, si sta vedendo a Parigi: le silhouettes più praticate e più richieste dalle ragazzine, così come dalle star made in Usa e dai loro stylist, sono quelle prese spesso senza alterazioni dai libri di storia della moda, dopotutto perché mai Ariana Grande dovrebbe ritenere sconveniente indossare un abito Schiaparelli di oggi copiato da un celebre modello di Balenciaga del 1950 quando nel Paese dove abita c’è il vicepresidente J.D. Vance che fa osservazioni sull’adeguatezza vestimentaria altrui seduto a gambe larghe con i calzini corti alla caviglia e la cravattona penzolante, elegia americana forever. Quando nulla si sa, tutto pare nuovo e appropriato. In questa messe di Barbie “Solo in the spotlight”, celebre modellino di tulle nero che la Mattel aveva ripreso da Marcel Rochas, si assiste però a interessanti evoluzioni, conseguenza non proprio diretta ma comunque influenzata dalla situazione geopolitica del momento.

Per esempio, sta tornando una grande attenzione nei riguardi dei giovani stilisti, che il presidente di Camera Nazionale della Moda Carlo Capasa invita i buyer a seguire con maggiore attenzione e ad investirvi qualche denaro, come lui stesso fa, affiancato dall’Ice, presentandoli ogni stagione a palazzo Giureconsulti nel Fashion Hub. Ci hanno colpito soprattutto due casi: quello Francesco Tolotti (il brand si chiama Tolo) e Cascinelli, insieme con l’ospite straniero, il giovane-divino Charles de Vilmorin. In questi mesi di ulteriori difficoltà per il sistema della moda prodotte dalle minacce del presidente Usa Donald Trump (come dice Capasa, “ricordiamo che se in Europa abbiamo nei confronti degli Usa una bilancia attiva per quanto riguarda le merci, ne abbiamo una largamente passiva per quanto concerne quei diritti di proprietà intellettuale che ogni giorno sottoscriviamo sulle varie piattaforme americane. Aumentando i dazi reciproci, perché credo che l’Europa sarebbe obbligata a farlo, ne avremmo solo un danno per i consumatori di tutto il mondo e un aumento dell’inflazione globale”) c’è bisogno di un po’ di coraggio da parte del cosiddetto sell in, soprattutto perché è chiaro che i grandi brand non attirino più come un tempo, a prescindere, e anche perché piccole produzioni locali rappresentano quella forma di sostenibilità che sotto la scure della crisi è ormai sparita dall’agenda generale.

Nella forma positiva di un intoppo severo che si è risolto, la dinamica della restaurazione famigliare si è rappresentata venerdì 28 febbraio alla presentazione della collezione di Missoni, una delle più apprezzate della settimana, insieme con Fendi e ovviamente con Prada (vedere a pagina 4), che però non ha mai dovuto subire scossoni e deviazioni repentine dal percorso stabilito, essendo guidata dal primo giorno dalle stesse mani. Da Missoni, la serie di capispalla disegnati da Alberto Caliri, per oltre un decennio braccio destro di Angela Missoni, quindi estromesso dal management scelto dal Fondo Strategico Italiano per dare spazio a Filippo Grazioli e richiamato dopo due anni di collezioni che avevano immusonito perfino i più carezzevoli dei critici di moda e fatto adire le vie legali al grande couturier Maurizio Galante per evidente, nonché pessimo, plagio, hanno entusiasmato la vastissima platea pur chiamata in una serata parecchio fredda in quel luogo molto periferico che sono le Fonderie Macchi di via Cosenz, un altro posto che sarebbe da eliminare dalla mappa degli indirizzi di presentazione della moda milanese insieme con lo spazio industriale di via Perin Del Vaga, discreto pittore tardo quattrocentesco della cerchia del Ghirlandaio al quale hanno intitolato però una via stretta, impercorribile con l’auto e irraggiungibile dai mezzi pubblici sulla Milano-Laghi la cui sola riproduzione in calce a un invito si trasforma in una scarica di invettive contro il brand che ha avuto la pessima idea di sceglierlo.

Nello spazio delle Fonderie e di fronte a un pubblico avvolto nelle coperte opportunamente disposte sulle seggioline, Caliri ha dunque presentato la collezione che tutto il mondo della moda, tenacemente affezionato alla famiglia Missoni, sperava di vedere, e cioè dei bellissimi capispalla e dei golfoni che nei colori e negli intrecci avrebbero potuto assomigliare a quelli che Ottavio e Rosita Missoni, scomparsa due mesi fa, avevano portato al successo mondiale, ma nei tagli e nelle proporzioni sembravano, e infatti erano, fatti per essere amati e indossati sopra gli shorts dalle ventenni di oggi. Diceva Caliri backstage che “da un punto di vista puramente creativo e di interesse socio-culturale”, il mondo multicolorato e lo zigzag “cristallizzati tra la metà degli anni Ottanta e i Novanta” del Novecento, rappresentano apparentemente “il picco più alto a livello di distribuzione e di visibilità di marchio”, ma che dal punto di vista puramente creativo e di interesse socio-culturale, la forza di Missoni risale a un periodo precedente, e dopotutto, quando incontravi Rosita Missoni, non era mai degli Ottanta che ti parlava, ma dei Sessanta della grande affermazione, della rivoluzione della maglia e della rottura con Pitti per via di quegli abiti che sotto le luci, involontariamente, erano diventati trasparenti e rivelatori.

Abbiamo parlato con i buyer, e tutti, da Federico Giglio a Mario Dall’Oglio e Bruna Casella, ci hanno detto le stesse cose e stilato sostanzialmente la stessa classifica. Tolto Armani, che non si discute, con quelle sue giacche damascate, stampate e ricamate e quelle sacche di stile rinascimentale che faranno faville, nessuno aveva mai osato forme come quelle per gli accessori da sera, e quindi Brunello Cucinelli, che gioca un po’ una partita a sé e che migliora una stagione dopo l’altra, questa volta con una lavorazione della lana effetto coccodrillo, ci hanno detto che compreranno “sicurezza”, oltre a qualche pezzo di ricerca. Dunque, in attesa che Lorenzo Serafini si lasci un po’ andare e realizzi una collezione Alberta Ferretti all’altezza delle sue capacità, a Milano ordineranno i cappotti di Max Mara, i completi di Armani, qualche pezzo di Marni, le variazioni sul tema paisley di Etro e naturalmente gli abiti dritti, svasati sul fondo e le bellissime borse, fra cui un nuovo modello binomio battezzato opportunamente Giano, disegnati da Silvia Venturini Fendi per la collezione del centenario, presentata in una serata felice, garbata e commovente popolata di volti che hanno fatto la storia della maison e della moda italiana come il conte Franco Savorelli o Sarah Jessica Parker. Un’occasione così poco “corporate style”, così zero “parvenu de la mode” che non sembrava vero avvenisse in tempi diciamo multinazionali come questi.

Ma i tempi, appunto, cambiano, e non ci dispiace affatto questa nuova estetica, di comportamento oltre che di stile, che guarda un filo indietro, che rigetta la mancanza di stile di Tony Effe in collanona Tiffany prezzolata che gli viene sottratta per pubblicità occulta un istante prima di salire sul palco di Sanremo, con un danno di immagine importante per il brand Lvmh, e applaude invece lo stile di Lucio Corsi che cura da solo il proprio look. Mentre il grande pubblico, stanco di sentirsi parte di “community” alle quali non può accedere in alcun modo se non idolatrando lo stilista via social e moltiplicando i cachet dei pochi veri “talent” rimasti, sposta progressivamente il proprio budget in spese voluttuarie in benessere, secondo quanto certificano anche i dati appena diffusi da Cosmetica Italia (come ha annunciato il presidente Benedetto Lavino, le previsioni per il 2025 proiettano un ulteriore andamento positivo del 6,9 per cento che porterà il valore del fatturato a 17,7 miliardi di euro, mentre le esportazioni, con 7,9 miliardi di euro, in crescita del 12,5 per cento rispetto al 2023, cresceranno di ulteriori 8,5 punti percentuali nel corso di quest’anno), il perimetro del lusso va restringendosi. Il push continuo della finanza dimostra ogni giorno di più di aver prodotto più danni che vantaggi per il sistema e che solo pochi, come Prada e Cucinelli, stanno dimostrando di saperlo sfruttare senza farsene fagocitare.

Mutazioni in corso. Un’immagine dall’uscita finale della sfilata Versace autunno-inverno 2025, appena presentata a Milano. In basso, un abito dipinto e ricamato di uno fra i maggiori talenti internazionali del momento, Steve O Smith, neo-trentenne nato ad Amsterdam ma cresciuto a Londra, semi-finalista della nuova edizione del LVMH Prize insieme con l’italiano Francesco Murano, altro nome da tenere d’occhio

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