Pizzul, il prof. friulano che detestava i tecnicismi e viveva il calcio come poesia

Alla sua lingua corposa e morbida di baritono nasale si dovrà tributare una cattedra di italianistica sportiva. Fu tra gli ultimi a vivere lo sport come un fatto letterario, schivando ogni retorica

Alto alto come un fromboliere, come uno di quei difensori “marcantoni” che venivano su a folate per inzuccare da lontano nel “grappolo di uomini”, guerrieri di una nobile guerra letteraria, il calcio. Alla sua lingua corposa e morbida di baritono nasale sono dedicati glossari e calepini, gli si dovrà tributare una cattedra di italianistica sportiva, se già non è stato fatto. È pieno il web di “è tutto molto bello”, “ed è gol”, del suo glorioso “e segna, segna Roberto. Roberto Baggiooooo”. Al rigore che ci buttò fuori da Italia ’90 (“Notti magiche” solo per la cattiva memoria degli smemorati) oppose un laconico “purtroppo è andata…” che avrebbe inorgoglito il suo caro Tacito del liceo classico.



C’è da star male solo a pensare che cosa avrebbero sbrodolato pianto sociologizzato demagogizzato i tripli commentatori del pallone di oggi, gracchiando come cornacchie, davanti all’Evento. E la finale di Euro 2000, “attenzione… attenzione… ahia… ahia… ahia… Trezeguet… e la Francia ha vinto l’Europeo”. Oggi saremmo qui ancora a chiedere un referendum per l’abrogazione del golden gol, se non fosse stato per la sua misura olimpica, per la sua passione elegante, di uno che il football l’aveva giocato davvero, e da professionista, quando ancora non c’erano gli highlights. La notte dell’Heysel, 29 maggio 1985, era dietro il microfono: “È anche compito del cronista cercare di dare le notizie a mano a mano che giungono: chiedo scusa a tutti per la frammentarietà delle informazioni”.

Oggi che la frammentarietà delle informazioni, persino nel percorso demenziale dal bordo campo alla sala Var, è invece diventata il lubrificante necessario di un racconto senza fine e spesso senza costrutto. Persino, ahinoi, a volte grammaticale. “Ha il problema di girarsi”, “il bandolo della matassa”, lui che si era laureato in Legge ma aveva fatto il professore di materie letterarie, prima di svoltare alla radio, ha sempre avuto la pazienza e la passione di cercare le parole di un bell’italiano lontano dal berciare della curva, preciso e diverso dallo pseudo tecnicismo – il quattrotretre, la diagonale, il non possesso – che non amava e mal sopportava, come pacatamente disse più volte. Visse nella terra di mezzo arida tra “campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo” e “il cielo è azzurro sopra Berlino”, la gioia di urlare per la sua Nazionale, di cui fu voce per quasi un ventennio, rimase strozzata, a lavare l’amarezza solo un sorso dei vini buoni e delle grappe della sua amata terra.



Friulano di Udine, che tirò i primi calci a Cormons, Friuli goriziano, e le prime prove microfono alla Rai di Trieste, era un figlio amoroso di quelle terre rare (speriamo che Trump non le scopra mai) che stanno tra il Piave e l’Isonzo, quel Friuli e quella Venezia Giulia (lui madrelingua friulano, no triestino, eh) che per qualche dono antropologico e divino è sempre stata anche una terra rara di gran talento calcistico. Cesare Maldini e il Paròn Rocco, Capello e Dino Zoff, uno che come lui di recente ha rimpianto il calcio degli oratori. Un modo d’essere, di giocare, di schivare la retorica, di godersi gli orizzonti. Che si è portato dietro tutta la vita, quando stava in Corso Sempione a Milano, dove la Rai era ancora la Rai, con la leggerezza letteraria dei suoi piedoni stirati mentre leggeva i giornali, con artisti amici della parola come Beppe Viola, con fratelli maggiori raffinati narratori come Sandro Ciotti.

Nel giorno dell’addio, non è soltanto la nostalgia nazionalpopolare e posticcia per un’Italia che non c’è più, perbene e forbita, figlia di buona terra e di buone scuole. Bruno Pizzul, i suoi frombolieri e i suoi problemi di girarsi è stato uno degli ultimi che hanno vissuto lo sport (non dite “ha insegnato calcio”, per favore) come un fatto letterario, poetico, come un campo di lotta cavalleresca e simbolica in cui le passioni e la fantasia si compongono, invece di prendersi a male parole confidando che un labiale senza sonoro decida chi ha vinto. Era nato a Udine nel 1938, è morto oggi a Gorizia.

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  • Maurizio Crippa
  • “Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini”

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