Ci è capitato un bel guaio e una grande opportunità. La proposta di un piano di pace per l’Ucraina diverso da quello di Trump è una linea che ha già prodotto in Gran Bretagna, Germania e Polonia un centro di governo. E obbliga l’Italia a fare chiarezza
Ora sappiamo bene a cosa serve l’Europa. Lo sappiamo grazie all’agguato teso a Zelensky da Trump e da Vance. L’Europa serve, o servirebbe, a fare di una storia comune non solo un insieme di convenienze, ma anche sostanza di un attore politico. De Gasperi, Adenauer e Schuman lo sapevano benissimo e per questo la volevano. E la fecero. Noi, invece, l’abbiamo trovata, non abbiamo dovuto volerla. Sicché sino a oggi ci siamo potuti limitare a giudicarla volta per volta più o meno utile, a concepirla a volte come un vantaggio economico e a volte come una scusa. A volte una scusa nei confronti degli Stati Uniti (ad esempio per scroccarne la protezione militare), a volte una scusa nei confronti gli uni degli altri (per ricavarne più di quello che si dava, a cominciare dai vantaggi strappati da De Gaulle per gli agricoltori francesi).
Quando, come in questo momento, serve qualcosa di più, l’utile non basta più. Ora Putin e Trump hanno scoperto il nostro gioco. Ne hanno messo a nudo il corto respiro. In queste drammatiche condizioni è successa una cosa bella e scomodissima: l’Europa centrale e occidentale – quella libera e democratica – si è ritrovata in mano la bandiera delle società aperte. Non perché l’abbiamo voluta, ma perché al momento non ci sono altre mani che ce la contendano. Ci è capitato un bel guaio e una grande opportunità. Non lasciamoci ingannare dalla lentezza con cui le opinioni pubbliche si mobilitano: ciò che è grande si mette in moto lentamente. I record di partecipazione alle elezioni politiche di questi ultimi mesi (Gran Bretagna, Francia, Germania) significano le opinioni pubbliche hanno compreso quale è la posta in gioco e che è molto grande. Tutto era cominciato qui, nell’Europa centro-occidentale. Era cominciato tra l’XI ed il XII secolo, chiudendo le pagine carolingia, sassone e salica di un impero che assorbiva ed amministrava anche il sacro. Confliggendo non più sporadicamente, due tipi di poteri secolari, quello politico e quello religioso, differenziandosi diedero vita pian piano ad un modello di ordine sociale prima diarchico e poi poliarchico: le società aperte. Cominciò con dei pareggi: 1107 per Normandia e Oltremanica, qualche anno prima per la Francia, nel 1122 a Worms per l’impero. Sottotraccia avevano lavorato schiere di monaci, spesso tanto teologi quanto giuristi, da Incmaro di Reims a Ivo di Chartres, per arrivare ad Ildebrando di Soana (poi Gregorio VII). Le basi le avevano fornite Agostino e poi Gelasio I. Gli ingredienti di base erano – e restano – due: diritto romano e cristianesimo. Il primo serve ad arginare il potere politico, anche quello della maggioranza; il secondo offre un modello di verità pubblica che si limita di fronte alla coscienza.
Poi l’albero fiorì e fruttificò anche altrove, soprattutto a ovest dell’Atlantico. I primi europei a studiare il caso americano, De Tocqueville ed Hegel (qualche cenno anche in Giacomo Leopardi), avevano compreso il valore e la estrema fragilità di quell’esperimento. Poteva consumarsi. Si sta consumando, speriamo non definitivamente. Ora sappiamo il perché dell’Europa. Ora dobbiamo decidere se questa ragione (la libertà, il diritto e la emancipazione) ha per noi più valore dei vantaggi sino a ieri accumulati o scroccati. Se accettata, questa ragione diventa identità e rende possibile – non necessario, ma possibile – concepire e scegliere anche il non immediatamente conveniente. Come nello stupendo “Emilia Perez”, possiamo illuderci di cambiare identità o possiamo raccoglierla e farla crescere. Però la nostra identità l’abbiamo di nuovo di fronte, limpida e tagliente come non era da un pezzo. Per fare i conti con una identità non basta il calcolatore e se accogli una identità diventano ragionevoli anche cose che il calcolatore sconsiglia. E’ come avere davanti finalmente un buon caffè, se lo vuoi bere – e potresti anche non berlo – non lo bevi per nutrirti o dissetarti, lo bevi per svegliarti. Il riavvicinarsi della Gran Bretagna all’Europa continentale e la defezione di Ungheria e Slovacchia ci dicono che ciò che serve è un Trattato nuovo, un Trattato nel Trattato, a più alta densità politica di quelli recenti.
Non si tratta affatto di scaricare gli Stati Uniti (sarebbe un suicidio), né Israele (sarebbe un omicidio), ma di trattarci in modo serrato, essendo disponibili a discutere le rispettive velocità, non la direzione. Prima ci rimettiamo in moto, prima possiamo trattare seriamente e duramente con gli Stati Uniti di Trump e l’Israele di Netanyahu. Ci aiuta sapere che gli Stati Uniti non sono solo quelli di Trump (anche se non tollereranno mai più europei scrocconi) e che Israele non è solo quello di Netanyahu. Fra meno di due anni, alle elezioni di mid-term, a Trump potrebbe non andare benissimo e, forse ancor prima, alle prossime elezioni in Israele a Netanyahu potrebbe andare molto male. Gli israeliani sanno che è stato lui a lasciar crescere Hamas nella Striscia per calcoli che per tutto Israele si sono rivelati drammaticamente sbagliati. Si tratta di guardare all’Africa e di riattivare il poco, non pochissimo, di ciò che è rimasto delle reti globali lusitane, ispaniche, francofone e del Commonwealth. Si tratta di ricordare a India, Giappone e Corea del sud che l’Europa c’è e che c’è in un modo diverso dal passato. I recenti accordi tra Unione europea e Mercosur potrebbero rivelarsi il primo tassello di un nuovo mosaico, da proseguire con la “via del cotone”, con la integrazione di intelligence nel Five Eyes, e magari nel QUAD, e con altro ancora.
Si tratta di essere capaci di colpi di teatro, magari offrendo al Canada l’adesione al nuovo Trattato e mettendo la questione della difesa della Groenlandia e del nord scandinavo nella parte alta della nostra agenda di difesa, subito dopo l’Ucraina. Non si tratta di uscire dalla Nato, ma di prenderla sul serio e dunque di assumere una quota più ampia dei suoi costi, e non perché Trump lo chiede. Magari, fra poco, in qualche ancora piccolo, ma non marginale scacchiere o a proposito di qualche dossier, potrebbero essere gli Stati Uniti a doverci inseguire. La proposta, innanzitutto agli Stati Uniti, di un piano di pace per l’Ucraina diverso e migliore di quello di Trump va in questa direzione. Questa linea ha già prodotto in Gran Bretagna, Francia, Germania e Polonia un nuovo centro di governo. In Italia incrina il centrodestra e spacca il centrosinistra: meglio così, ci obbliga a fare chiarezza.