Chi ricorda la locandina o il manifesto di un film meritevole di memoria può scommettere che spesso reca la sua firma. Il segreto di una composizione? “Le proporzioni auree, con cui contribuii a cambiare il gusto dei manifesti cinematografici. Quando ero ragazzo rispondevano a un racconto esplicito senza equilibri geometrici”. Intervista
Per decenni la sera è andato a letto presto, perché l’indomani alle sei era già in piedi per lavorare al tavolo da disegno: ora Renato Casaro, trevigiano classe 1935, è impegnato nell’impervio tentativo di raccogliere la sua opera omnia già consacrata da mostre e premi. Chi ricorda la locandina o il manifesto di un film meritevole di memoria può scommettere che spesso reca la sua firma. Dai western all’italiana a Bertolucci, dalle pellicole di Bud Spencer e Terence Hill a Verdone, da Besson a Dario Argento fino a Quentin Tarantino, che gli commissionò i cartelloni per i film immaginati in “C’era una volta a… Hollywood”.
L’uso del digitale, la grettezza delle produzioni e il mutamento dei gusti hanno soppiantato l’opera manuale del pittore, ma l’hanno al contempo elevata a collezionismo, alla potenza emblematica del cinema quando era cinema e un manifesto convincente contribuiva al successo di un film.
Quanti cartelloni ha fatto?
Circa duemilacinquecento. Alcuni, ora che li sto radunando, neppure li ricordavo più.
Ha spaziato in tutti i generi.
Un cartellonista di cinema non può mai rifiutare un film dicendo che non è in grado di rappresentarlo.
Il preferito?
Forse “Nikita”: il manifesto deve condensare l’essenza del film e lì c’è il volto nascosto della donna armata raffigurata a metà, c’è il sangue, il pathos dell’attesa. Besson ne fu entusiasta.
Chi ha visto “Il tè nel deserto” ricorderà la locandina con la figura solitaria tra le dune. Come la concepì?
Schizzai tante idee: gli amanti che s’abbracciano, i cammelli… ma l’immagine che scelsi alla fine non è presente nel film. È senza volto e ciò non era infrequente, perché spesso i contratti obbligavano a inserire nel cartellone un certo attore quando ne veniva rappresentato un altro. Rinunciando al volto, si superava il vincolo.
In “Balla coi lupi”, al contrario, c’è Kevin Costner che si tinge il viso come un nativo americano.
Nell’uniforme da soldato blu. Il gesto riassume il senso della vicenda, l’ingresso del protagonista in un’altra civiltà.
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Vedeva i film prima di disegnare?
“Balla coi lupi” per esempio lo conobbi in moviola. Altre volte vedevo il film completato o mi aiutavo con le foto di scena, che fino agli anni Duemila catturavano ogni ciak.
Se si ripensa a “C’era una volta in America” torna in mente il manifesto. Come nacque?
Decisi di cogliere i personaggi nel momento migliore, espresso dalla scelta dell’oro. Quando presentammo il manifesto ai distributori europei ci fu un momento di tensione, perché il tedesco contestò l’assenza di una donna. La ritenevo una composizione perfetta e tremai, ma Leone lo zittì. Disse: “Dietro a ogni uomo di successo in smoking c’è sempre una donna, perciò non serve metterla”. Con Sergio ebbi un rapporto speciale: fu come un padre. Studiavamo i primi abbozzi del suo nuovo progetto, un western sulla storia della Colt, ma purtroppo gli mancò il tempo.
Qual è stato il suo primo lavoro importante?
“La Bibbia” di John Huston. E Dino De Laurentiis insistette perché trasferissi lo studio a Los Angeles, ma non ne ebbi il coraggio. Per lui ho realizzato tantissimo: in “Waterloo” misi Rod Steiger ossia Napoleone di spalle, riassumendo l’idea di quella battaglia. Poi ricordo il manifesto per “Conan il barbaro” con Arnold Schwarzenegger. Allora era solo un campione di culturismo e De Laurentiis si raccomandava: “Fammelo bene, perché dobbiamo lanciare il personaggio”.
Un’altra immagine emblematica è per “L’ultimo imperatore” di Bertolucci.
Decidemmo di puntare sul bambino, lo sfarzo della corte, il gioco tra luci e ombre che ingigantiscono il piccolo imperatore e creano un senso di tensione. La stampa non è mai riuscita a rendere perfettamente l’originale, in cui ci sono sfumature e trasparenze delicatissime grazie all’impiego dell’aerografo che accentua la tridimensionalità. Fui il primo a introdurre questo strumento nella cartellonistica del cinema all’inizio degli anni Ottanta e feci scuola. L’effetto ottenuto era di un iperrealismo affascinante.
Quanto impiegava per un cartellone?
Una decina di giorni, ma prima doveva arrivare l’idea, la cosa più difficile.
Un manifesto che l’ha divertita molto?
Quelli dei film di Celentano. In “Asso” la “A” del lettering erano le sue gambe, allungate ma senza farne una caricatura. Esprimevo il suo spirito. Ma mi sono divertito tanto anche con Terence Hill.
Come incideva il rapporto con i registi?
È il feeling da cui si colgono gli spunti. Per “L’uomo delle stelle”, per esempio, Tornatore mi disse che voleva un manifesto nello stile dei carretti siciliani, con le storie dipinte sopra.
La chiamano “l’ultimo cartellonista”. E adesso?
È tutto livellato. I manifesti si fanno in digitale perché costano meno e si usano le fotografie del film. È anche cambiato il gusto, la gente non spende più tempo per contemplare i manifesti, mentre prima la strada era un po’ il museo delle mie opere. Ma sono orgoglioso, perché so che il mio lavoro è persino più apprezzato proprio perché non si prosegue.
Qual è il segreto di una composizione?
Le proporzioni auree, con cui contribuii a cambiare il gusto dei manifesti cinematografici. Quando ero ragazzo rispondevano a un racconto esplicito senza equilibri geometrici: c’era il volto di lei, di lui e il cattivo dietro, o i contendenti e la donna sullo sfondo. Per un film di guerra c’era una scena di battaglia con l’eroe in evidenza. Quelle immagini fuori al Cinema Garibaldi di Treviso m’incantavano ed ebbi voglia disegnarle anch’io, mi piaceva l’idea di portare dentro il pubblico grazie a un cartellone. Così cominciai.