Quanto costa la neutralità fittizia del Qatar nei negoziati su Gaza

Il piccolo emirato potrebbe rivelarsi un perfetto rifugio temporaneo per permettere ai gazawi di alloggiarci durante la ricostruzione della Striscia e isolare economicamente e politicamente Hamas. Ma non potrebbe accettare questo compromesso senza nulla in cambio. Il ruolo di Trump

Tel Aviv. Il 4 Marzo, al Cairo, si riuniranno tutti i paesi arabi coinvolti nella negoziazione tra Israele e Hamas per cercare di portare a termine la prima fase degli accordi e avviarsi verso la seconda, quindi iniziare a programmare il processo di ricostruzione – e riabilitazione politica – a Gaza. Egitto e Giordania avranno un ruolo fondamentale in quanto candidati ad assorbire, anche solo nel breve periodo, i palestinesi che sceglieranno di lasciare la Striscia durante la fase di riedificazione. Arabia Saudita ed Emirati, almeno stando ai programmi dell’amministrazione americana, potrebbero essere i maggiori investitori nel progetto di ricostruzione. Infine, emerge sempre di più il ruolo cruciale, e altrettanto ambiguo, del Qatar, che negli ultimi quindici anni è stato uno dei maggiori investitori nell’infrastruttura e quindi, al tempo stesso, nella rete terroristica edificata da Hamas, per via dello stretto legame tra il gruppo terrorista e la Fratellanza musulmana, di cui la monarchia qatariota è uno degli sponsor principali. Per questo, affidare al Qatar il compito di ricostruire Gaza risulterebbe, secondo Ronit Marzan, docente di Sicurezza nazionale presso l’Università di Haifa e con 32 anni di servizio nell’intelligence, “un errore enorme da parte della Casa Bianca, che in questo modo lascerebbe Israele nuovamente nelle mani degli stessi architetti del massacro del 7 ottobre”.

Un “catch 22”, dunque, poiché è impossibile portare avanti la trattativa con Hamas senza che il Qatar partecipi alle trattative. Salvo cercare di trarre i vantaggi possibili da questa “alleanza con il diavolo”. Secondo Israel Harel, storico editorialista del quotidiano Haaretz, il piccolo emirato – dalle dimensioni poco più grandi dell’Abruzzo, ma popolato da 1,8 milioni di abitanti, di cui soltanto il 13 per cento locali, a fronte di 1,5 milioni di immigrati che risiedono nella penisola come lavoratori stagionali – potrebbe rivelarsi un perfetto rifugio temporaneo per permettere ai gazawi di alloggiarci durante la ricostruzione della Striscia, offrendo loro anche nuove opportunità lavorative, in modo, una volta tornati nell’enclave, di vivere in una situazione economica certamente migliore rispetto a quella attuale. Questo peraltro permetterebbe al denaro qatariota di arrivare direttamente nelle mani dei palestinesi, superando la corruzione di Hamas e quindi isolando economicamente e politicamente il gruppo terrorista.

Rimane, tuttavia, l’incognita del perché la piccola monarchia assoluta dovrebbe accettare questo compromesso senza ricevere nulla in cambio. Da decenni, infatti, il Qatar gioca la presunta carta della neutralità, dichiarando di non essere schierato con nessuna delle grandi alleanze e di essere disposto a dialogare con tutti – dagli Stati Uniti alla Cina, da Israele all’Iran – in modo da garantirtisi il ruolo indiscusso di mediatore e quindi di poter cambiare le carte in tavola a seconda dei propri interessi, sia economici sia politici, costituendo, in questo modo, una bomba a orologeria collocata proprio tra i più importanti alleati regionali di Stati Uniti e Israele.

Sarà dunque determinante, nei mesi avvenire, il ruolo della nuova amministrazione Trump nel cercare di arginare l’egemonia qatariota. Non solo in medio oriente. Come ricorda Charles Asher Small, direttore e fondatore dell’Institute for the Study of Global Antisemitism and Policy, da decenni l’emirato qatariota finanzia tra le più prestigiose università in America ed Europa, esercitando il proprio soft power in tutti gli strati della società, “dall’accademia alle tifoserie da stadio, attraverso massicci investimenti nello sport, uno dei settori, assieme a quello delle compagnie di trasporto, in cui il Qatar ha maggiormente investito negli ultimi decenni, decretandosi la quinta potenza economica su scala globale: un pericolo imminente non solo per Israele, ma per tutto l’occidente. Poiché gran parte delle nostre più importanti istituzioni, sia pubbliche sia private, dipendono dagli investimenti di un emirato che detiene il primato, per denaro investito, nel sovvenzionare il terrorismo internazionale”.

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