“L’appiattimento del mondo” secondo l’intellettuale francese. Il problema è a monte, forse non c’è una vera guerra culturale, perché è proprio l’idea stessa a essere in crisi, anzi, è morta. L’istinto all’improvviso sembra scomparso
Come la strega di Oz con le scimmie volanti, Elon Musk spedisce il suo esercito di giovani incel che si attaccano ai server del Tesoro. Tutto questo per una riduzione all’osso della macchina governativa, ma anche per una guerra culturale in nome del “buon senso”. E’ stato il “virus woke”, come lo chiama lui, a farlo diventare trumpiano. Il fanatismo cerca di debellare un altro fanatismo. E la reazione Maga in certi casi può apparire giustificata, se pensiamo agli estremi a cui è arrivata questa “cultura woke”, come la chiamano i detrattori, e tutte le sue più fantasiose appendici. Pensiamo agli animali di supporto sugli aerei – gente che vuole portarsi un pavone in economy perché fa passare l’ansia –, pensiamo al concetto di “appropriazione culturale”, ai “queer for Palestine”, agli attacchi a Cristoforo Colombo… Anche la campagna elettorale, persa dai democratici, goffi e impauriti di fronte all’idea di esser percepiti come offensivi, è stata dipinta come uno scontro culturale – da una parte la difesa della sessualizzazione delle pubblicità delle M&M’s, dall’altra i pronomi inventati. Ma, dice nel suo ultimo libro Olivier Roy, forse il problema è a monte, forse non c’è una vera guerra culturale, perché è proprio l’idea stessa di cultura a essere in crisi, anzi, ormai è morta.
La vera guerra è quella della sopravvivenza della cultura di fronte a questi due estremismi, scrive in L’appiattimento del mondo (Feltrinelli, traduzione di M. Guareschi) il politologo francese; quello che vediamo è solo un “tentativo di pensare i valori al di là della cultura”. Oggi quella che prima era cultura è “stile di vita”, dove “il discorso sul cibo rimpiazza il cibo”. Oggi “tutti si percepiscono come appartenenti a una minoranza minacciata”, in un sistema dove i legami sociali e lo stato nazione sono in crisi, dove internet porta all’autoreferenzialità, dove “il mondo della dichiarazione rimpiazza quello dell’azione”, dove tutto è arte perché il gesto dell’artista è più importante dell’opera. La cancel culture è il risultato di una “tendenza ‘presentista’ – si vive in un eterno presente e ogni momento di questo presente può essere modificato attraverso un recupero della storia per, come in Terminator, ritornare nel passato e cambiarla”. Un tempo, si parlava di “anima di un popolo, oggi delle sue radici”. Agli accademici-attivisti dice: “non basta decostruire per liberare”
E poi, scrive Roy, viviamo in un mondo in cui l’istinto all’improvviso sembra scomparso. Tutto deve essere esplicitato, per questo si usano le emoji per dire “sto scherzando”. L’autismo è celebrato. Non si lascia spazio all’implicito che potrebbe offendere l’altro. I marcatori diventano essenziali. Non c’è spazio per nulla di sofisticato, niente di profondo, niente di storicamente stratificato. Ma soprattutto, ogni cosa viene normativizzata, viviamo ogni giorno schiacciati da sempre più regole. Sparendo la cultura, ecco che arriva un linguaggio che si rifà continuamente all’ambito giuridico. Le nuove leggi, ad esempio quelle sul consenso dell’atto sessuale, tendono a ricodificare le pratiche umane. Post #MeToo, dice Roy, le istituzioni si impegnano a “verificare se, a ogni passaggio, è possibile determinare o meno la presenza del consenso” – come si fa? La grande utopia sessantottina di liberazione, che Roy ha vissuto in prima persona quando era un maoista, oggi “è sfociata in un’estensione del sistema normativo, morale e giuridico”. In una società dove “tutto è oggetto di una norma dettagliata, come è possibile fare cultura?”.