L’isola felice del Corvetto è una palestra dove si pratica la boxe. L’esempio della Boxe Island

Il pugilato a Milano promuove valori di impegno e crescita personale, offrendo opportunità a giovani di diverse condizioni sociali. Il fondatore Cristian Bruno enfatizza l’importanza dello sport come strumento di formazione e integrazione, criticando la cultura sportiva in Italia

Non è vero che i ragazzi vengono qua per imparare a picchiare e poi andare fuori a rapinare le persone. Ho letto sui social commenti di questo tipo. Noi non insegniamo a essere bravi, buoni, angioletti, ma semplicemente a fare fatica, a sudare, a muoversi. Parliamo di sport”. Fondatore e allenatore della Boxe Island di via Marco D’Agrate, a Milano, Cristian Bruno insegna il pugilato ai bambini di nove anni e ai sessantenni che ancora non mollano. “Qui abbiamo un po’ tutti, il ladruncolo di quartiere e il poliziotto si allenano insieme, perché in palestra non ci sono distinzioni. Ci sono il ricco e il povero, l’imprenditore e il disoccupato. È il bello dello sport: con un pallone ai piedi, con una maglia da calcio, sono tutti uguali”.



Alla Boxe Island si paga una quota d’iscrizione, ma la palestra è aperta anche ai meno abbienti. “La mia famiglia era un po’ svantaggiata economicamente”, racconta Bruno. “A tredici anni mi sarebbe piaciuto cominciare a fare il pugilato. Me ne ero innamorato guardando una videocassetta del grande Marvin Hagler. Il problema in alcuni casi è semplicemente economico. Allora cerchiamo di andare incontro a questi ragazzi. Da parte loro ci devono essere impegno e serietà: non vado in palestra gratis perché sono il figo del quartiere, non funziona così. Il mio sogno è avere una squadra di cento ragazzini che gareggiano tra loro per emergere. Non per diventare per forza campioni, ma perché attraverso lo sport, sicuramente attraverso il pugilato, possiamo diventare una versione migliore di noi stessi. Magari non tutti abbiamo il talento e le capacità per diventare campioni, ma chi mette impegno e serietà merita attenzione”.


Alcuni dei ragazzi che si allenano alla Boxe Island sono stati segnalati da associazioni di quartiere o dalla Comunità di Sant’Egidio. Il quartiere è il Corvetto, di cui si è parlato, spesso a sproposito, riguardo al caso del diciannovenne Ramy Elgaml, morto nel novembre dello scorso anno al termine di un inseguimento con un’auto dei carabinieri. Anche Fares Bouzidi, l’amico che guidava lo scooter su cui Ramy viaggiava, aveva frequentato la palestra. “Me lo ricordo, un ragazzo alto e magro. Atleticamente non aveva grandi qualità, però devo dire che per quel poco che l’ho visto non ha dato nessun problema, non si è comportato male: è sempre stato educato e ha sempre fatto quello che gli si diceva. Era un ragazzo come tutti gli altri, si emozionava a vedere quelli più bravi che praticavano il pugilato e si vedeva che voleva imparare. Corvetto si sa che è un quartiere difficile, non è detto che, venendo in palestra, uno nella vita smetta di arrangiarsi come può”.



I corsi gratuiti sono uguali a quelli a pagamento. “Chiedo a questi ragazzi di frequentare la palestra nel pomeriggio, quando è più vuota e quindi abbiamo più spazio a disposizione e riusciamo a dargli un’attenzione diversa”, spiega ancora Bruno, un passato da super welter nei dilettanti. “Con l’obiettivo dell’agonismo, cerchiamo anche di tenerli un po’ sulla retta via”. Tra i dilettanti, il pugile migliore della palestra è Yousef Mansour, 63,5 kg, una trentina di match all’attivo e la concreta possibilità di passare professionista. “È arrivato qui accompagnato da alcuni assistenti sociali che ci hanno segnalato lui e il fratello come ragazzi che potevano essere aiutati. Si sono iscritti normalmente ma non navigavano nell’oro, il padre è operaio e ha cinque figli. Quindi alla fine, vedendo il loro impegno, abbiamo sorvolato sulla parte economica. Hanno cominciato a partecipare all’attività agonistica da protagonisti, ma anche dietro le quinte, perché quando si fa una gara i ragazzi danno una mano. C’è chi cura i guantoni, chi si occupa di dare una pulita alla sala, c’è chi fa avanti e indietro tra il ring e gli spogliatoi per sincerarsi che gli altri pugili siano pronti quando è il loro turno. Insomma, c’è tutto un entourage composto da questi ragazzi, che in questo modo si sentono parte della squadra”.



Prima di cominciare a mettere i guantoni e praticare veramente il pugilato, di solito passa un bel po’ di tempo. “Quelli che purtroppo vanno poi in giro a combinarle – racconta Bruno – sono quelli che da noi scappano subito. Magari vengono, provano, vedono che c’è da fare fatica e mollano. Quelli che invece rimangono sono quelli che capiscono che possono anche fare una vita migliore: non vanno in giro a fare guai. Già nei primi mesi si capisce chi è predisposto alla fatica, al risultato, al sacrificio, a una certa direzione di vita”. Da parte dei genitori dei più piccoli, c’è un po’ di diffidenza nei confronti dei pugilato. “Lo sport però rimane sport, che sia pugilato, rugby, calcio o ginnastica artistica. Lo ripeto: i ragazzi non imparano a tirare pugni. Non è questo lo sport. Imparano cosa significa sudare, essere costanti, darsi un obiettivo e raggiungerlo. Può essere quello di perdere peso, mettere su muscoli, aumentare la sicurezza in se stessi. Questo vale per lo sport in generale: essere più prestanti fa sentire un po’ più preparati alla vita di tutti i giorni, anche solo per correre dietro a un autobus o arrangiarsi a fare un trasloco. Soprattutto, darsi degli obiettivi e cercare di raggiungerli è formativo per tutti. In Italia purtroppo abbiamo una cultura sportive pessima: ci ricordiamo di guardare lo sport solo quando ci sono le Olimpiadi e dopo che sono finite contiamo le medaglie. Ma prima non si fa un lavoro per incentivare i giovani a seguire un percorso sportivo. A partire dalle scuole, dove con la scusa della sicurezza si preferisce non fare nulla: nessuno si fa male, non succede niente e stiamo a guardare se per miracolo qualcuno emerge. Non nasciamo tutti filosofi o artisti. Magari qualcuno è più fisico e ha doti grazie alle quali potrebbe raccogliere di più. Nelle scuole secondo me ci dovrebbero essere la squadra di matematica, la squadra di pugilato, la squadra di nuoto e così via. Lo Stato dovrebbe incentivare chi è bravo o ama fare qualcosa. Non si possono contare le medaglie solo dopo che le Olimpiadi sono finite”.

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