Maksym Butkevych ci racconta la libertà dopo la galera russa

Le umiliazioni subite, la forza scovata insegnando l’inglese agli altri carcerati e poi ora di nuovo la possibilità di scegliere. Come ci si riabitua alla vita

La libertà ha un significato pratico, dice al Foglio Maksym Butkevych, grande attivista per i diritti umani, giornalista e ufficiale delle Forze armate ucraine. Quattro mesi fa Butkevych è tornato a casa dopo due anni e quattro mesi in una galera russa: è stato rilasciato in uno scambio di prigionieri di guerra. Per lui, ora, ogni giorno è un processo di riadattamento alla possibilità avere di nuovo il diritto di scelta: “Entri in un bar e dici: ‘Datemi un caffè’, e ti chiedono: ‘Di che tipo?’. Guardi il menù e hai dieci opzioni diverse: non sai quale scegliere”. In prigione non esiste scelta, si obbedisce agli ordini delle guardie.

Se ti dicono di scavare, scavi. Se ti dicono di andare a destra, vai a destra, “ora invece esco per strada e so che posso andare sia a destra sia a sinistra senza che mi possa accadere nulla”, racconta felice.

Tre anni fa, dopo l’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia, Butkevych, che ora ha 47 anni, come molti altri civili ucraini, si arruolò nell’esercito e scelse il nome in codice “Mosè”, il profeta biblico. Nel giugno del 2022, fu catturato assieme ai suoi commilitoni durante una missione nella regione di Luhansk. Da quel momento, il tempo per Butkevych si è fermato: “In prigione sei come un insetto in una scatola e la vita scorre senza di te”. Fuori c’era un mondo in cui i soldati ucraini continuavano a combattere contro l’aggressione russa, le persone si innamoravano e si lasciavano, nascevano e morivano, inventavano nuove tecnologie: “Pensavo che, una volta libero, forse ci sarebbero stati già i taxi volanti”.

Nel marzo del 2023, un tribunale dell’autoproclamata Repubblica popolare di Luhansk, territorio occupato dalla Russia dal 2014, lo ha condannato a 13 anni di reclusione in un carcere di massima sicurezza con l’accusa di aver bombardato un edificio a Severodonetsk. Né Butkevych né la sua unità si trovavano in quella città durante la guerra.

L’obiettivo principale della prigionia, racconta, è quello di distruggere la dignità umana. Durante il trasferimento al centro di detenzione di Luhansk, fu picchiato davanti a tutti, per terrorizzare gli altri prigionieri. Appena arrivati, le guardie tolsero a ognuno le scarpe, per mesi sono furono costretti a camminare solo con i calzini. “L’intero sistema è costruito sull’umiliazione”, dice. Non venivamo portati a fare la passeggiata quotidiana come invece era previsto. Rimanevamo chiusi nelle celle, murati vivi. La doccia era concessa una volta alla settimana, ma spesso passavano anche due settimane senza. Il periodo più lungo senza lavarsi è stato per lui di un mese e mezzo. A causa della mancanza di aria fresca e di igiene, la pelle è diventata gradatamente grigio-verde.

Quando era finalmente concessa la doccia, i prigionieri dovevano tenere la testa bassa e le mani dietro la schiena. Lungo il percorso venivano spinti dalle guardie con bastoni, insulti e urla. A volte li costringevano a esercizi fisici senza motivo, solo per sfinirli ancora di più: flessioni, squat, cadere e rialzarsi a comando. Ogni mattina e sera suonava l’inno della Repubblica popolare di Luhansk e, dopo che Vladimir Putin ha annesso ufficialmente altre quattro regioni ucraine alla Russia, anche l’inno russo. “Li conosco entrambi a memoria. Tutti dovevano impararli”, dice Butkevych.

In prigionia il terrore s’insinua nella mente, diventa subconscio. Si vive con la costante paura che ogni minimo errore possa portare a un nuovo dolore. Questo non riguarda solo le percosse durante gli interrogatori, ma anche le torture. “Diventi solo un pezzo di carne con cui possono fare quello che vogliono”. Ma a lui è andata meglio di molti altri: non è stato torturato con le scariche elettriche. Ha adottato una strategia precisa con le guardie: parlava sempre a bassa voce, con calma, restando educato e rispettoso. “Li trattavo come animali feroci: meglio non innervosirli, perché non sai mai quando potrebbero attaccarti”. Tuttavia, questa compostezza spesso irritava le guardie, perché dimostrava che Butkevych era riuscito a mantenere la cosa più importante: la sua dignità.

Con il tempo, ha imparato anche a dire di no, pur sapendo di poter essere punito severamente. Un giorno gli hanno detto che avrebbe dovuto rilasciare un’intervista a un’emittente straniera, senza specificare quale, per screditare la fondazione di George Soros in Ucraina. Si è rifiutato e ha detto che, se lo avessero costretto, avrebbe detto solo ciò che pensava. L’intervista non si è mai fatta: “Dopo aver detto ‘no’ una volta, diventa più facile farlo di nuovo”, dice Butkevych.

Nonostante gli abusi e le umiliazioni, per lui la prigionia non è stato tempo perso. E’ riuscito a viverla anche come un’opportunità per riflettere su ciò che conta davvero nella vita. Nella cella non aveva carta né penna per scrivere, soltanto sei mesi prima dello scambio gli è stato permesso di inviare delle lettere. Ma, anche senza, “scriveva” mentalmente, sempre. Questo lo aiutava a mantenere la lucidità e proteggere il suo mondo interiore. Senza esercizio mentale, in prigione si regredisce rapidamente, dice. Molti dei suoi testi riguardavano la natura della guerra e le sue cause. In uno di questi, in inglese e pensato per il pubblico internazionale, spiegava che la Russia stava combattendo contro l’Ucraina una guerra imperialista: “La Russia non è mai stata un impero senza l’Ucraina”. Questa guerra è combattuta con le armi del Ventunesimo secolo, ma con la mentalità del Diciannovesimo: “Putin e i suoi seguaci sono rimasti bloccati nel passato”, dice.

Per non perdere lucidità, nel carcere di Luhansk Butkevych insegnava ai suoi compagni di cella anche l’inglese. “All’inizio pensavano che sapessi meglio il francese, quindi per alcuni giorni abbiamo studiato francese”, racconta ridendo. Poi sono passati all’inglese. Dopo una settimana, molti avevano perso interesse perché non erano ancora in grado di parlare fluentemente, ma uno no, ha resistito e ha fatto grandi progressi. Butkevych scherzando dice che dovrebbe brevettare il suo metodo di insegnamento delle lingue in prigione: senza libri, carta né penna. Nel 2023, mentre era ancora in prigione, ha vinto il Premio Anne Frank, assegnato dall’ambasciata olandese negli Stati Uniti.

Il 18 ottobre 2024, Butkevych è tornato in Ucraina grazie a uno scambio di prigionieri. Dimagrito e provato, felicissimo e grato a chi ha lottato per la sua liberazione. In prigione, dice, la paura più grande è perdere la speranza che il tuo paese si ricordi di te. Finché hai questa certezza, hai una speranza. Ora si sta riabituando alla libertà e alla vita, alle notizie, alla tecnologia, ai rumori delle strade, alla gente. Anche un semplice taglio di capelli gli dà gioia. In prigione si radeva con un rasoio cinese scadente che lo faceva sembrare uno spaventapasseri. Quando finalmente si è seduto sulla poltrona di un barbiere a Kyiv, ha sorriso per tutto il tempo. “Il ragazzo mi ha chiesto perché fossi così felice. Gli ho detto che aspettavo quel momento da due anni e mezzo”. Il barbiere si era bloccato, scioccato. Spesso chi scopre la sua storia non sa come reagire.

L’Ucraina che Butkevych ha ritrovato è cambiata: è stanca della guerra, ma è più organizzata, resistente e consapevole che ogni giorno può essere l’ultimo. Ha smesso di rimandare la vita, “a Kyiv c’è un senso di edonismo pre apocalittico”, dice con un ultimo sorriso: la cultura e l’arte sono ovunque, intrecciate con la realtà della guerra, e l’umorismo resiste. Gli ucraini non hanno ancora intenzione di arrendersi.

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