I frammenti di un nuovo ordine, a partire dall’Ucraina

Kyiv ha già vinto la sua guerra d’indipendenza, ma ora la Washington di Trump, che disprezza l’Europa, crea una nuova destabilizzazione. Un piano per gli europei, a partire dalla sicurezza

E’ difficile scrivere davanti a sommovimenti così veloci e con la sensazione penosa di essere un vecchio che ha affidato per anni i suoi averi a persone di fiducia, e si ritrova di colpo a scoprire che la sua fiducia era mal riposta, privo di tutto e con l’amara consapevolezza di portarne la responsabilità. Ho pensato perciò che la cosa più utile che potessi fare è cercare di dipanare cinque dei fili di una storia che si può far cominciare nel 1991. Finì allora – nel modo in cui finiscono tutte le cose, cioè lasciando eredità che comprendono germi di novità e quindi senza davvero finire – il mondo nato nel 1945, che per l’Europa occidentale era stato il più comodo e gradevole dei mondi e che quindi nessuno voleva veder scomparire. Si spiega in gran parte così il nostro desiderio, grandissimo, di autoinganno, lo stesso che ci ha portato a non vedere per quasi 50 anni un’evidente catastrofe demografica o la realtà esclusivamente giuridico-economica di una “unificazione” europea i cui indubbi benefici abbiamo ricoperto con una retorica che affermava quel che non c’era e scambiava desideri e privilegi temporanei con la norma.

Questi cinque fili si dipanano in Ucraina, Russia, Stati Uniti, Cina e Unione europea, e non sono naturalmente gli unici che sarebbe necessario seguire per ragionare su un mondo che sarà sempre più difficile capire senza vedere India e Africa subsahariana. Alla fine mi soffermerò sull’ultimo di essi, perché è quello che più ci interessa e in cui il nostro impegno può, malgrado tutto, contare ancora qualcosa.

L’Ucraina del 1991 era il prodotto di una storia che accomunava le repubbliche post sovietiche, con cui aveva condiviso un passato tragico, un sistema economico fallimentare e una cultura fatta di uno strano misto di depressione, nazionalismo, culto della forza, perbenismo e ipocrisia ma anche di buoni sentimenti e intenzioni. Le sue peculiarità stavano nella particolare tragicità di quel passato, simboleggiata dalla grande carestia del 1932-1933, in più radicate tradizioni nazionali, in un forte pluralismo linguistico e religioso, nella presenza di una attiva diaspora e soprattutto nelle sue dimensioni, nella sua posizione geografica e in una storia più direttamente di altre legata a quella europea.

La nuova Ucraina prese così, dapprima lentamente, a muoversi verso occidente, attratta da un lato da un modo di vita insieme più libero e agiato, e sospinta dall’altro da un modello russo che non aveva da offrire nemmeno un grande sogno come era stato quello del 1917, poi rivelatosi falso e terribile ma allora condiviso anche da élite ucraine allora in buona parte socialiste. Il motore principale di questa spinta a ovest furono i suoi milioni di emigrati e i loro familiari, che fecero diretta esperienza negli anni Novanta della durezza di una Russia dalle grandi risorse e quindi più ricca, ma anche più brutale, e poi e crescentemente della più gradevole vita in Europa.

Questo movimento, acceleratosi nei primi anni del nuovo millennio, è simboleggiato dalla grande rottura antirussa e filoeuropea del 2014, che spinse Mosca a cominciare una guerra poi esplosa nel 2022 per prendersi con la forza quanto e chi non voleva essere russo.

L’accanita resistenza opposta a questo tentativo prova la potenza di quel movimento, che ha impedito a Putin di realizzare un obiettivo che credeva a portata di mano. Malgrado la tragica situazione determinata dal venir meno del sostegno americano e dalla fragilità di quello europeo, continuo a pensare che la sua guerra di indipendenza l’Ucraina l’abbia vinta: non è stata inghiottita perché ha mostrato con grandissimi sacrifici che non vuole esserlo e che non lo sarà. Certo le dimensioni e le condizioni dell’Ucraina indipendente avrebbero potuto essere diverse da quelle che imporrà la brutale ideologia di Trump. Ma milioni di persone resteranno libere e sperabilmente integrate nell’Unione europea, anche se non mancheranno problemi legati alla fragilità di quest’ultima e a quella delle basi su cui riposano il suo benessere e il suo stile di vita. Ma questa è un’altra storia e molto dipenderà da come sapremo affrontare i problemi cruciali che la resistenza ucraina ci ha costretto a porci con chiarezza.

Malgrado i tanti elementi comuni, nel 1991 la Russia versava in condizioni molto diverse. Nonostante il collasso dell’Urss, Mosca era ancora un grande centro imperiale, sede di potenti burocrazie “pan-sovietiche” e in possesso di un gigantesco arsenale strategico che la cecità anglo-americana contribuì nel 1994 a rafforzare aggiungendovi quelli ucraino, bielorusso e kazaco. Mosca controllava inoltre enormi risorse naturali e anche nei momenti più bui poté quindi contare su uno straordinario flusso di denaro, che nutrì e corruppe oligarchi e apparati, ma permise anche una più rapida ricostruzione statale e la formazione di gruppi benestanti nonché la diffusione di un piccolo benessere popolare, specie nei centri urbani. In queste condizioni, complice anche il caso, rappresentato dalla scelta di Putin a successore di Yeltsin (ma un partito nazionalista radicale aveva raccolto la maggioranza relativa dei voti già a fine 1993 e la ripresa imperiale era allora già in corso in Cecenia, Abkhazia, Transnistria ecc.), a dieci anni dal crollo si era radicata nei gruppi ai vertici dello stato una lettura del 1991 come opera di un “Occidente collettivo” russofobo, che ora si opponeva alla rinascita di Mosca come grande potenza, la stessa Mosca cui americani e europei, oltre a consegnare arsenali strategici altrui, avevano ammesso nel G8, invitato a partecipare ai vertici Nato e aperto sostanziose linee di credito.

La crisi del 2008, la presidenza di Obama e il suo scarso interesse per la politica estera e soprattutto la rottura con la Cina, spinsero Putin ad agire. Nel 2013, recuperata la Bielorussia e piazzato un suo uomo a Kyiv, egli pensò di aver vinto. L’amara delusione dell’insurrezione di Kyiv e della fuga di Yanukovych lo spinsero a occupare la Crimea e ad alimentare il conflitto nel Donbas. L’espansionismo americano e in particolare della Nato erano indicati come i pretesti di aggressioni che culminarono tre anni fa, dopo che la ritirata di Kabul ebbe dimostrato quanto poco gli Stati Uniti fossero espansivi (gli stessi Stati Uniti che oggi – ritornati aggressivi – sono a Mosca la potenza con cui discutere, lasciando l’improbabile ruolo dell’aggressore alla “vegetariana” Unione europea, in un intrico di menzogne tanto assurde e contraddittorie da far sorridere se non trovassero anche nella Ue folte schiere di credenti).

Le sconfitte del 2022-23, culminate con la rivolta di Prigozhin, furono sanate grazie al sostegno della Cina, alla protezione del vecchio arsenale strategico sovietico, e al fiume di denaro che continua ad affluire a Mosca, permettendole di mandare a morire masse di ben pagati volontari. Ma il subitaneo entusiasmo con cui Putin ha aderito alle profferte di Trump mostra che Mosca sa quanto la sua situazione sia difficile e che molti vi temono un troppo stretto abbraccio cinese, anche perché la disparità economica, demografica e di potenza con Pechino è evidente. E’ probabile che la svolta di Trump permetta a Putin di dichiararsi vincitore, sventolando come trofei il territorio conquistato e il “ritiro” di una Nato in realtà da decenni in crisi profonda. Ma la nuova strada su cui a partire dal 2008 Putin ha messo la Russia è già stata pagata e sarà pagata dai russi per decenni, anche dopo la sua morte e anche se il grande arsenale atomico e le risorse naturali ne attutiranno i colpi.

La Washington di Trump ha intanto sostituito Mosca come epicentro della destabilizzazione di un mondo dove, abbandonata un’ipocrisia che almeno rendeva omaggio alla virtù, regnano, apertamente osannate, forza e sopraffazione. Cosa nutre questa rivoluzione, cosa ha spinto gli Stati Uniti, o almeno una sia pur piccola maggioranza della loro popolazione, a imboccare una strada così diversa da quella cui eravamo abituati? I fattori da tenere in mente sono almeno quattro. Il primo è il progressivo distacco, umano e poi culturale prima che economico, degli Stati Uniti dall’Europa, avviatosi negli anni Sessanta quando il benessere e la crisi demografica europee hanno interrotto il flusso migratorio che teneva uniti i due continenti, e la riforma dell’immigrazione ha portato in America decine di milioni di persone che con l’Europa e la sua storia non hanno niente a che fare. Il secondo è la progressiva trasformazione delle politiche antidiscriminatorie, appoggiate anche dalla maggioranza dei bianchi in nome di uguaglianza, giustizia e merito, in azioni positive che discriminano gli ex “dominatori”, dimenticando che le colpe dei padri non ricadono sui figli e che siamo e vogliamo essere trattati come persone, non come categorie.

Questo ha portato nel corso dei decenni larga parte della popolazione bianca ad assumere posizioni di forte rifiuto delle élite dominanti, che fanno la morale dall’alto dei loro privilegi, un processo aggravato dal particolare malcontento dei maschi, anche latini e in parte persino neri, che nelle elezioni del 2024 hanno votato per Trump al 60, 50 e 24 per cento, con punte più alte tra chi non ha un diploma universitario. Il terzo è la crescita dell’immigrazione clandestina, che ha spinto anche una parte degli immigrati recenti, che desiderano integrarsi, a reagire, anche perché, come nel caso delle azioni positive, sono i penultimi a sentire per primi la minaccia degli ultimi. Il quarto è la sensazione che l’ascesa della Cina, per anni nutrita da Washington, voglia dire la fine del secolo americano, cosa vera e in fondo normale, e cui non dovrebbe essere difficile adattarsi, ma che anche gran parte degli elettori democratici trova inaccettabile, come ci ricordano gli IU-ES-EI, IU-ES-EI scanditi alla loro convention.

Gli Stati Uniti hanno così conosciuto una crisi della modernità per certi versi simile a quella europea (per esempio denatalità, crisi della famiglia, invecchiamento ecc., che sono frutto di scelte di individui convinti di volere al contrario ordine, comunità e stabilità e paradossalmente attratti dai discorsi che li rivendicano) ma anche profondamente diversa da essa. Questa diversità è figlia di un declino che a differenza di quello europeo non è assoluto, ma solo relativo. Grazie alla grande immigrazione, alle capacità di innovazione e a vaste risorse naturali che l’Europa non ha (e che li rendono più simili alla Russia) gli Stati Uniti sono molto più ricchi di 10, 20 o 30 anni fa. Ancora una volta come la Russia, hanno inoltre un gigantesco arsenale nucleare nonché l’esercito più potente del mondo e non è forse un caso che le due superpotenze che hanno dominato la seconda metà del Novecento siano oggi le più insofferenti a un mondo che le ha, sia pure diversamente, ridimensionate.

La crisi e il malcontento di un paese del genere, in condizioni del genere, e che non accetta di avere uguali, formano un mix esplosivo e Trump è il simbolo e l’interprete di questa forza, di questa energia e di questo malessere, urlato da un Maga che ha una forte componente isolazionista di ri-concentrazione sulle Americhe, quella del Nord in particolare. La bufera potrebbe passare senza cristallizzarsi in un regime populista semi-dittatoriale, ma non se ne può essere certi. Tra l’altro, anche ammettendo che i discorsi di Trump abbiamo una loro logica, come nel caso dell’uso dei dazi come spauracchio per ottenere concessioni, e che voglia abbracciare Putin per staccare la Russia e le sue bombe atomiche dalla Cina (ma allora c’è anche l’ipotesi che sottostia al ricatto di chi forse possiede ampio materiale compromettente), resta comunque il fatto che l’Unione europea non gli interessa e che in fondo la disprezza, anche perché essa continua a condannare il suo culto della sopraffazione, che è il lato positivo della nostra retorica intessuta di irrealtà e buone intenzioni.

La Cina è già l’altra grande superpotenza del mondo in cui viviamo, uno status che gli Stati Uniti si rifiutano di riconoscerle trattandola da pari come sarebbe giusto ed è inevitabile fare. La sua veloce parabola di questi decenni racchiude una lezione che è importante capire: tutti i paesi hanno avuto o avranno il loro miracolo, la cui scala e la cui durata sono state o saranno legate alle loro dimensioni, alle loro risorse e alle loro politiche. Ai pochi milioni di contadini italiani trasferitisi a Torino, a Roma o in Germania negli anni Cinquanta e Sessanta corrispondo i 400 e più milioni di contadini che lo hanno fatto in Cina a partire dagli Ottanta, oscurando i miracoli economici occidentali e quello di un Giappone presentato allora anche nei film o nella letteratura come il principale competitore di Europa e Stati Uniti ma il cui astro è presto tramontato, come è tramontato quello europeo.

La differenza sembra essere che i cicli dei boom degli ultimi venuti sono più intensi ma anche più brevi di quelli di chi ha avuto la fortuna di venire prima di loro, come i paesi dell’Europa nord-occidentale, in cui la fase della crescita e del benessere è durata qualche secolo invece di pochi decenni, per culminare e spegnersi con la fiammata dei miracoli. In Cina questo processo sembra destinato a essere particolarmente veloce anche per i drammatici errori della sua leadership, dal grande balzo in avanti di Mao alle politiche del figlio unico di Deng, fino alla mania quasi patologica del controllo di Xi. E’ quindi possibile che l’ascesa cinese si sia fermata prima del previsto e abbia raggiunto obiettivi inferiori a quelli possibili, ma la Cina è comunque destinata a restare una delle grandi superpotenze di un mondo dove – grazie alla diffusione di istruzione e conoscenze scientifiche – le dimensioni quantitative sono destinate a contare più che in passato. Non a caso all’orizzonte si vede già l’India, che sarà seguita nei prossimi decenni da qualche grande paese africano, destinato a sua volta a consumare il suo miracolo e poi a ristagnare.

E’ a queste dimensioni e al possesso di un arsenale atomico proprio che bisogna pensare se si vuole vivere in primo luogo al sicuro e poi, se ci si riesce, come soggetto politico indipendente. E’ questa la realtà alla quale l’Unione europea è stata messa di colpo di fronte prima dall’aggressione di Putin, che ha riportato la guerra in Europa, e ora dalle politiche di Trump. Queste ultime hanno rotto le illusioni in cui ci siamo cullati, simboleggiate dalla decisione di non rivedere nel 1991 i princìpi di un’Alleanza atlantica che stava perdendo la sua ragion d’essere e che continuava a sottrarre all’Europa il controllo della sua difesa in un mondo in veloce trasformazione, ma era troppo comoda e rassicurante per essere ripensata. Non va inoltre dimenticato che Clinton spingeva allora per una “Unione” larga, ma col cuore della sua difesa in mano statunitense. Né Washington né Bruxelles “videro” che il ritiro russo-sovietico dall’Europa dell’est annunciava a suo modo quello americano – certo diversissimo – dall’ovest, prodotto dai grandi cambiamenti di cui abbiamo parlato, e che l’allargamento contribuiva al distacco con gli Stati Uniti perché ci rendeva diversi da coloro con cui si erano alleati dopo il 1945, lasciando intravedere che l’Europa era destinata in prospettiva a restare sola.

La risposta europea al 1991 fu però appunto la nascita di una Unione fittizia e il suo veloce allargamento. Quel nome, ingannevole, esprimeva certo anche ottime intenzioni, ma sarebbe stato meglio battezzarla in modo più corrispondente alla realtà: l’Ue è infatti un’associazione di stati che godono del diritto di veto, più simile alla lega anfizionica greca o a quella italica del XV secolo che a qualunque federazione o confederazione, anche blanda. Il realismo suggerisce che ci si mise allora su una strada sbagliata, su cui non si riesce ad andare avanti. Non si tratta certo di cancellarla, o di tornare indietro, ma sembra di poter concludere – come ha fatto di recente Draghi – che la via per proseguire, come sarebbe necessario, è quella che possono aprire gruppi di stati “volenterosi” che anticipino decisioni che poi magari altri seguiranno, come si fece con l’euro. E’ una via che permetterebbe tra l’altro di riprendere il dialogo con il Regno Unito, come sarebbe in ogni caso auspicabile a meno di una vittoria di Farage.

Le cose da fare sono molte e difficili ed è irrealistico pensare si possano ottenere con uno scatto di orgoglio, che aiuta, ma non basta. Bisognerebbe piuttosto agire con umiltà, facendo già oggi il più possibile per l’Ucraina e lavorando per un futuro in cui anch’essa possa essere, come noi, più sicura. Il punto di partenza non può che essere la costruzione di un ombrello atomico europeo, e quindi il riconoscere nella Francia il fondamento su cui costruire, con il contributo di chi vorrà aderire. Già un’associazione di stati europei con un migliaio di testate di vario tipo, legate a una sua missilistica e affidate a un comando centrale, sarebbe un’entità capace di difendersi da sola e quindi di esistere nel mondo che si va delineando. A questa costruzione si potrebbe associare un grande rilancio dell’energia nucleare di nuova generazione accompagnato da maggiori investimenti per la fusione, in modo da rallentare il riscaldamento globale e in prospettiva, attraverso la disponibilità di energia a basso costo, far fronte alla minore produttività di una popolazione invecchiata, proteggendone il benessere. Basterebbe questo, ma sarebbe naturalmente bello se questo gruppo di volenterosi potesse anche cominciare ad avere una politica estera attiva, non intralciata da veti, che punti prima di tutto alla riforma di una Nato non più “atlantica” ma aperta al mondo liberal-democratico e con al suo interno una componente europea indipendente.

Capacità di difendersi e tutela del benessere e della libertà raggiunte potrebbero essere le basi della legittimazione interna, fondata sulla coscienza dei terribili effetti delle guerre con cui l’Europa si è suicidata nella prima metà del XX secolo. Quanto alla legittimazione esterna, i richiami a libertà e democrazia, che abbiamo sì “riscoperto” ma anche accompagnato con imperialismo e colonialismo, suonano ipocriti agli orecchi di chi abbiamo dominato. Meglio sarebbe quindi rivendicare le grandi conquiste di una scienza nata in Europa e che certo è stata applicata anche a fine bellici, ma che ha portato benefici di cui gode tutto il pianeta. Questi discorsi di legittimazione potrebbero essere elaborati dall’Unione, che dovrebbe riconoscere il suo bisogno di una lingua veicolare adottando un inglese capace di mettere quasi tutti i suoi cittadini (con le piccole eccezioni di Irlanda e Malta) sullo stesso piano. Sempre l’Unione potrebbe darsi il compito di sostenere la nascita di un quotidiano e di un settimanale dell’Unione stessa, sì da cominciare a dar vita a una indispensabile opinione pubblica europea. Tutto sarebbe comunque inutile in assenza di una grande iniziativa comune per far fronte alla crisi demografica con la promozione della scienza, una gestione intelligente dell’immigrazione e soprattutto un grandioso spostamento di risorse a favore dei giovani che faccia tornare conveniente, materialmente e psicologicamente, fare figli.

Se un soggetto politico europeo riuscisse a vedere la luce, anche solo come prodotto di un piccolo gruppo di stati, sarebbe possibile cominciare a parlare con tutti da posizioni più sicure: con gli altri paesi liberal-democratici e con gli Stati Uniti, che sono ancora quelli a noi più vicini, prima di tutto, ma anche con una Cina interessata a farlo, con l’India e con l’Africa subsahariana e un domani anche con una Russia che abbia trovato una strada diversa. E’ triste anche solo pensarci, ma se non ci si avvia su questa strada – la cui prima tappa è la costruzione di una arsenale atomico comune – si potrà solo tentare di conservare un’associazione che tanto ci conviene, anche come individui; di difendere se possibile – ma non sarà facile – un euro fragilizzato; e di mettere in ordine ciascuno a casa propria: gli stati europei saranno gli equivalenti di un Ducato di Parma e Piacenza, o di un Granducato di Toscana, ma almeno ben tenuti, come era quest’ultimo.

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