Perché non Witold Gombrowicz?

Feltrinelli, per i suoi 70 anni, ripubblica alcuni suoi grandi classici, dividendo in due tempi la calata degli assi, una adesso e una a maggio e si spera di trovare lo scrittore più corrosivo, imprevedibile e sfuggente del Novecento. Per Milan Kundera è tra i maggiori autori contemporanei dopo Proust

Perché non Witold Gombrowicz? Feltrinelli fa 70, e in occasione dei festeggiamenti ripubblica alcuni suoi grandi classici, dividendo in due tempi la calata degli assi. Una adesso, una a maggio. E’ in quella tardo primaverile che ci si augura di trovare il gigante Witold Gombrowicz, lo scrittore più corrosivo, imprevedibile e sfuggente del Novecento. Che era tanti Gombrowicz allo stesso tempo: surrealista naturale e filosofo rocambolesco, enigmatico indagatore e sfacciato parodiatore dei problemi della Forma, drammaturgo equestre che non andava a teatro eppure sfornava drammaturgie spericolate e killer di ogni verbalismo e di ogni inautenticità intellettuale, nemico delle Smorfie e Baccante della contraddizione. Ci si augura di trovarlo magari con “Bacacay”, oppure – sognare non costa niente – con il bellissimo e da troppi, troppi anni fuoricatalogato, “Una giovinezza in Polonia”, esaltante romanzo di formazione che sarebbe urgente riproporre.


Quando si incontra uno scrittore in un preciso momento della propria vita – sì, quel momento lì giusto e irripetibile, quel kairos che chiunque passi il tempo col naso tra le pagine sa benissimo cosa possa significare – si assume il suo sguardo. Nei casi migliori, se ne viene inevitabilmente plasmati. Be’, lo sguardo di Witold Gombrowicz fa di più: non lascia indenni. E’ uno sguardo che marchia. “Siamo, letteralmente, gombrowiczati”, scrive Michele Mari nell’introdurre il “Ferdydurke” de Il Saggiatore. Milan Kundera la vedeva così: “Gombrowicz è tra i maggiori scrittori contemporanei dopo Proust”. E di sé, lo scrittore: “Io sono un umorista, un pagliaccio, un equilibrista e un provocatore. Io sono il circo, il lirismo, la poesia, la lotta, l’orrore, il gioco” – ossia, uno dei rarissimi casi in cui uno scrittore parla di sé con una certa enfasi e non sta esagerando.



“Odiavo i salotti, adoravo di nascosto le dispense, le cucine, le stalle, i braccianti e le serve, e il mio erotismo precoce, saziato dalla guerra, dalla violenza e dai canti dei soldati, in seguito mi spinse verso quei corpi segnati dai lavori pesanti e sporchi. La bassezza divenne per sempre il mio ideale. Se adoravo qualcuno, quello era lo schiavo. Ma non sapevo che adorando lo schiavo diventavo un aristocratico”.


Uno capace, Gombrowicz, di scrivere “Ferdydurke”, una delle più spietate rese dei conti letterarie “contro tutto ciò che mi ha infantilizzato”, e poi, pagina dopo pagina, per degenerazione virtuosa (impossibile non usare ossimori, parlando di lui), di trasformarlo in un grande romanzo pirico-farsesco, in una satira demenziale e incontrollabile che mette le bombe sotto il culo di un mondo allo stremo. “Fasulli nel pathos, insopportabili nel lirismo, atroci nel sentimentalismo, sbagliati nell’ironia, pretenziosi nei voli e ripugnanti nella cadute. E così girava il mondo, girava e montava”. Il romanzo preferito di Gombrowicz era Don Chisciotte, e non è difficile capire il perché questo vate, questo maestro, questo pagliaccio, fosse deliziato da un cavaliere completamente obnubilato dalla letteratura al punto da scambiare puttane per regine.



L’insolenza di Gombrowicz, i bagliori della sua intelligenza, le sue riflessioni sull’identità: abbiamo bisogno impellente di questa sferzata, di una risposta feroce e vitale a certa letteratura scritta da moribondi per moribondi, che dice ma tanto varrebbe tacesse, che risponde ma non sa domandare, che straparla e non sente niente.

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