Prendono il nome da un racconto di Raymond Chandler e germogliano come un florilegio organizo, marcio e inevitabile a Bologna, città delle trasgressioni giovanili, del menefreghismo come stile di vita, delle perdizioni come vocazione, ma soprattutto della creatività come militanza
La storia della musica alternativa italiana dell’epoca pre tecnologica è perlomeno scarna. Bologna anni Settanta, Firenze Ottanta. Si dicono sempre le stesse sette, otto cose a cantilena, gli stessi pochi nomi, quelle canzoni, quei rituali. In effetti la faccenda era più ricca di così, perché si trattava appunto di un underground, formicolante di gente strana e, nella maggior parte dei casi, creativa. Se poi si vuole obiettare che, proprio in quanto underground, i protagonisti di questa vicenda non meritano d’essere ricordati e che è meglio così, chi c’era c’era, gli altri passino oltre, noi non siamo per niente d’accordo, perché tutte le epoche non sono uguali, e in quel momento nella musica italiana era in atto una vera rivoluzione senza spargimento di sangue, ma con molto midollo nelle ossa. E quelle sono storie da storicizzare, e anche da tramandare, perché utili a chi non le ha vissute. Perciò benemeriti siano coloro che le ricercano e le raccontano. La regista Lisa Bosi è un buon esempio.
Nel 2020 ha fatto un film per ricostruire cosa diavolo fosse la follia/magia discotecara della Romagna dei tempi d’oro della club culture, con quei locali che sembravano transatlantici e la gente che ci si pressava dentro a sclerare. Adesso fa un passo ancor più indietro e con “Going Underground” si concentra sulla Bologna del ’77, quella del Dams e di Alinovi, di Andrea Pazienza e di una musica che non si era mai sentita prima. L’idea è di ricostruire una vicenda del tutto sconosciuta, come quella del gruppo che era il capofila di quella scena, la dominava in modo altezzoso e arrogante, e aveva anche tutte le motivazioni per farlo, perché ciò che suonava in Italia non s’era sentito mai e la strada che stava aprendo era un esperimento in continua mutazione. Si chiamavano Gaznevada, come il titolo di un racconto di Raymond Chandler e germogliano come un florilegio organico, marcio e inevitabile nella città che in quel momento è il crocevia delle trasgressioni giovanili, del menefreghismo come stile di vita, delle perdizioni come vocazione, ma soprattutto della creatività come militanza, sottilmente, velenosamente intrecciata al carrozzone cigolante della politica extraparlamentare.
I Gaznevada erano la sintesi dello scontro tra disperazioni e ambizioni, autodistruttività e bellezza, punk e street art. Ebbero la forza di darsi una casa madre che fosse il loro rifugio e la battezzarono Traumfabrik, ebbero la fortuna di farsi riconoscere da un drappello di operatori culturali che sapevano come trasformare il loro caos in produzione: uno per tutti, Oderso Rubini, che ha sulle mani le stimmate del rock bolognese, fino a comporre i loghi dell’Harpo Records e poi dell’Italian Records. Ma i Gaznevada erano ragazzi coi vizi, se ne fregavano di qualsiasi empatia che non portasse successo o almeno godimento, e facevano corsa a sé, rispetto ai vagiti dell’altro rock italiano. Partono dal rifare i Ramones, transitano per il situazionismo, vanno in fissa con l’elettronica, la risolvono in dance futuribile, già nei pressi della distopia. Sono esteticamente magnifici e al tempo stesso impresentabili, discretamente pericolosi, litigiosi e pochissimo affidabili. Ma i ragazzini con lo sguardo lungo escono pazzi per loro, perché sono quello che vorrebbero essere tutti: la band grande, effimera e invidiata. Restano un album perfetto, “Sick Soundtrack”, un pugno di singoli, uno dei quali diventa un hit internazionale, “I.C. Live Affair”, e poi ci sono le solite cerimonie, scioglimento, riciclaggio, abbandoni, baruffe, nuovi incontri.
Sfacciatamente Lisa Bosi accetta di riaprire oggi il discorso di quasi mezzo secolo fa: li raduna, li veste come astronauti da luna park, commissiona loro una sequela di tableaux vivant d’epica assurda. E li spinge a ricordare: a frammenti, ovviamente senza nostalgie, con fatalismo, il solito scazzo, la rassegnazione nemmeno nascosta sotto occhiaie portate malissimo e un generale sapore di acido. Eppure questa rivendicazione di esperienza, questa ricostruzione di un disastro prevedibile ma dai riflessi smaglianti, questa spudorata mostra di come si è stati precursori, esploratori, incompresi guardiani della libertà di fare in Italia ciò che sembrava impossibile, è uno spettacolo istruttivo. Antidoto all’abitudine d’accontentarci, di cui ci nutriamo oggi, spigolando nelle pieghe di un’arte/spettacolo ispezionata da ogni genere di polizie. Un’occhiata a “Going Underground” ricorderà a chi ne ha smarrito la memoria e indicherà ai virgulti che si può fare molto con poco, senza rendersi simpatici, senza cercare protezioni, puntando in primo luogo a spassarsela e a trasformare delle balzane intuizioni in progetti inderogabili. Proiezioni il 24 a Bologna, il 25 a Milano il 26 a Roma.