Basta una passeggiata in un centro commerciale di Pechino per capire come la Cina stia già riscrivendo le regole del mercato dell’auto elettrica globale, a tappe forzate e con un vantaggio competitivo su tutti: i prezzi
Pechino. Autonomie impensabili, design futuristico, tecnologia iper-avanzata, prezzi da utilitarie. Potranno arrivare anche dazi bulgari, ma il mercato dell’automotive occidentale è destinato a essere inondato di auto elettriche cinesi. E’ l’impressione che si ha dopo la visita in un gigantesco centro commerciale di Pechino: vi abbiamo trovato una quindicina di concessionarie, principalmente di brand che nessuno ha mai sentito nominare in occidente. In estrema sintesi: sono tutte molto belle, costano pochissimo e hanno design e accessori da supercar. Ma come ci sono arrivati, i cinesi, a diventare apparentemente i migliori a fare auto elettriche così economiche?
In modo strano. I vertici del Partito comunista cinese sapevano bene che per recuperare il ritardo tecnologico nei confronti dell’occidente sulla componentistica del vecchio motore endotermico avevano un’unica carta: il loro sempre più vasto mercato interno. Fu così che nacque la strategia delle joint venture, la prima delle quali risale al 1983: il muro di Berlino era ancora in piedi, piazza Tienanmen un’indicazione topografica come un’altra, e la JV si chiamava BJC, Beijing Jeep Corporation, nata dal matrimonio tra la Beijing Automobile Works e American Motors. Il primo vero caso di successo raccontato sui libri di economia e management internazionale è però dell’anno successivo, quando nacque la Shanghai Volkswagen, unione di Saic e la celebre casa automobilistica voluta dal Führer.
L’idea del governo cinese era chiara: aprire il mercato alle aziende straniere a patto che queste trasferissero, direttamente o con metodi meno ortodossi, know how e tecnologia ai partner locali. Grazie a questo metodo, la Cina poté assimilare tecnologie avanzate di produzione e progettazione. Nel corso degli anni Novanta il modello joint venture divenne la norma, con protagonisti come General Motors (Shanghai GM), Psa (Dongfeng Peugeot-Citroën), Honda (Guangzhou Honda), Toyota (Faw Toyota) e altri, anche nel settore dei veicoli industriali e commerciali. In quegli anni si posero le basi teoriche per un altro salto: col nuovo millennio, la Cina inizia a sfornare in media quattro milioni di laureati in materie Stem all’anno, la maggior parte dei quali ingegneri. Nulla di sorprendente in un paese che fa del delegare a figure tecniche la guida anche politica dello stato da decenni.
Questa enorme quantità di cervelli va a popolare le numerosissime posizioni manageriali delle nuove aziende del settore, che spuntano come funghi, ma parallelamente emerge un’altra consapevolezza, che si fa strada sin dai primi anni Novanta grazie alla visione di Wan Gang, da tutti riconosciuto come il padre dell’auto elettrica cinese. Wan, promettente ingegnere laureatosi in Germania, entra alla Audi da neolaureato nel 1991, e riceve la visita nella fabbrica di Ingolstadt dell’allora ministra della Scienza cinese, Zhu Lilan. Dopo una conversazione con Wan, Zhu si convince che la partita sui veicoli tradizionali è chiusa, ma che può valer la pena diversificare la produzione, e al contempo trovare un’alternativa più sostenibile al petrolio, dato il livello sempre più pressante di inquinamento in Cina. Zhu convince Li Lanqing, ex vicepremier con un passato in quello che oggi è Faw Group: meno di quindici anni dopo, la prima flotta al mondo di bus elettrici è pronta per accogliere i visitatori per le Olimpiadi di Pechino 2008.
Oggi città come Shenzhen hanno un parco auto e bus quasi totalmente elettrico. E proprio a Shenzhen ha sede la più famosa azienda nel mercato nazionale (dove ha più del 30 per cento di quota di mercato) e all’estero: Byd, dall’acronimo per “Build Your Dream”. L’azienda fondata nel 1995 da Wang Chuanfu (anch’egli, ovviamente, ingegnere) anticipa fin dal nome di un paio di decenni la narrazione di Xi Jinping riguardo il Zhongguo Meng, il “sogno cinese” che nella sua visione è destinato a sostituire quello americano. Byd nasce specializzandosi sulla produzione di batterie ricaricabili – un pattern che tornerà di frequente nella recente storia dei suoi competitor – per allargarsi poi ai componenti elettronici e, infine, al settore automobilistico.
Ciò che sorprende infatti, andando ad analizzare il panorama industriale dell’automotive cinese, è proprio lo spettro di expertise diverse che la aiutano. A differenza dell’arena competitiva occidentale, molto specializzata e che procede per aggregazioni in conglomerati sempre più ampi, com’è tipico dei mercati delle tecnologie più mature, in Cina i produttori di veicoli elettrici si diversificano anche in altri settori, non necessariamente affini, come per esempio quello dei droni. I casi più eclatanti sono quelli di Xiaomi e Huawei, conosciuti dal pubblico occidentale principalmente per la loro produzione di cellulari, ma che sono entrati nel business delle auto dopo essere già presenti in quelli dei semiconduttori, dell’Ia e delle auto a guida autonoma. Ci sono poi player come Li Auto, che oltre alle macchine elettriche, è presente nella filiera dei robot industriali e degli umanoidi.
Da dove arriva, quindi, il loro vantaggio competitivo? I – si spera – pochi lettori ancora convinti dell’equazione Made in China = manodopera a basso costo e scarsa qualità, dovranno del tutto ricredersi: il sorpasso tra gli stipendi dei colletti bianchi cinesi e quelli italiani è avvenuto ormai una dozzina d’anni fa, e anche tra gli operai specializzati la differenza di salari non è così significativa. I fattori che giustificano oggi la differenza di competitività tra Cina e resto del mondo sono principalmente due. Il primo è lo stadio avanzatissimo di robotizzazione presente nei processi di assemblaggio e manifattura degli hub industriali cinesi. La Cina è a oggi tra i principali paesi al mondo per automazione industriale: un vantaggio competitivo che regala enormi economie di scala nella produzione di elaborati di alta tecnologia come questi. Il secondo fattore c’entra proprio con la struttura di costo del prodotto in sé: la batteria rappresenta circa il 40 per cento della spesa totale di produzione di un veicolo elettrico, e qui il vantaggio derivante dall’expertise cinese nel settore, da cui molti dei principali produttori provengono, fa sì che il costo di questo elemento sia ridotto fino a un 20-30 per cento. Ciò si traduce in una maggiore competitività sul prezzo finale al cliente, con una superiorità tecnologica che fa sì che non sia raro trovare prodotti sul mercato cinese che superano ampiamente la soglia non solo psicologica dei mille chilometri di autonomia effettiva.
Qualche esempio utile a farsi un’idea. Byd è il marchio più noto, nonché oggi di gran lunga il maggior produttore mondiale di auto elettriche, ma il mercato cinese è enorme e in continua espansione. Negli ultimi dieci anni circa una trentina di brand sono nati dal nulla o come costola di aziende che facevano altro, una prassi d’altronde diffusa in Asia: già circa un terzo sono falliti. Rimangono circa venti marchi, quasi tutti sconosciuti nel resto del mondo. Dal settore degli smartphone sono emerse le macchine ipertecnologiche di Huawei e Xiaomi, con design e posizionamento prezzo molto aggressivi. Tra le sconosciute in Italia, vale la pena citare Avatr, la cui linea è stata disegnata dallo storico designer tedesco della Bmw, e che infatti è già commercializzata anche in Germania: i suoi modelli full optional, con sedute massaggianti e un tripudio di schermi partono sul mercato cinese da circa 31 mila euro, per 750 chilometri di autonomia. Nio è un altro marchio apprezzato localmente, le batterie hanno autonomia crescente da 500, 800 e 1.100 chilometri e prevedono lo swap delle batterie, che vengono sostituite invece che ricaricate da una rete locale. Il modello sportivo è venduto a circa 41 mila euro, ma si può acquistare anche la macchina senza batteria per circa 10 mila euro in meno. Molto più abbordabili sono le Arcfox, il cui modello Kaola (la parola cinese per Koala) parte da 25 mila euro. Anche la Great Wall è presente con la sua gamma elettrica, sotto il nome di GWMaio, con un’auto presidenziale venduta a 38 mila euro. Come la linea della Li, il cui modello L6, una berlina, costa 31 mila euro. E’ conosciuta sul nostro mercato anche la Lynk&Co, acquistabile per meno di 24 mila euro con un’autonomia capace di arrivare a 1.400 chilometri. E poi c’è il settore lusso, oltre alla già citata Yangwang, ci sono le versioni sportive della Xpeng (la G6 parte da 45 mila euro) e la Aito S9, con prestazioni da far invidia ai motori endotermici. Molto significativo infine è il prezzo della Volkswagen Id Unix, un modello esclusivo per il mercato cinese di quella che da noi è la Id4, venduta ad appena 22 mila euro, ovvero circa la metà dell’equivalente sul mercato europeo.
I prezzi di queste auto sono competitivi nonostante i dazi di Trump. Perché dunque il mercato europeo non è ancora inondato di queste macchine elettriche? Per una serie di fattori. Primo fra tutti la rete di distribuzione, molto ridotta nei paesi mediterranei, e una certa diffidenza nei confronti del prodotto elettrico in certe fasce della popolazione, specialmente quelle anagraficamente più avanzate. Non è un caso che la quasi totalità di questi marchi, quando vendono fuori dalla Cina, lo fanno solo in alcune aree geografiche: la Scandinavia, dove le vendite di veicoli elettrici sono percentualmente le più alte in Europa, e in alcuni casi il Regno Unito.
In questi anni c’è poi stata una certa diffidenza verso le auto cinesi, da un lato per le preoccupazioni sulla sicurezza, dall’altro anche per un bombardamento efficace da parte di Tesla, il cui brand per molti è sinonimo stesso di veicolo elettrico. Ma la narrazione di Tesla si è imperniata essenzialmente intorno alla figura di Elon Musk – che, ricordiamo, non ne è il fondatore, ma uno dei primi investitori – e proprio questa strategia potrebbe ora rivoltarsi contro l’azienda stessa: il ruolo di sovraesposizione sulla scena mediatica mondiale dell’imprenditore sudafricano lo ha reso inviso a una larga fetta della popolazione, tra cui non pochi suoi clienti.
Tutto questo rischia di contribuire ad aprire la strada ai suoi competitor cinesi già presenti sul mercato e a molti altri. E nell’èra dei dazi, la strategia della Cina sembra essere quella che ha già applicato a casa propria: l’apertura di centri di assemblaggio nei paesi europei, sulla scia di quello che verrà inaugurato quest’anno a Szeged, in Ungheria. Il governo italiano di Giorgia Meloni aveva già discusso con la dirigenza di Shenzhen per aprire una “gigafactory” nel nostro paese, in una mossa che colpisce al cuore l’orgoglio di ciò che rimane di uno dei simboli della manifattura Made in Italy. I prezzi potrebbero essere più alti nel caso della localizzazione, ma per ammissione dello stesso ad di Byd, Wang Chuanfu, questa è una strategia che aiuterebbe la casa madre a radicarsi meglio sul mercato e aumentare la percezione positiva del brand. D’altronde, tra i sogni della casa di Shenzhen c’è anche una sfida nel mercato delle supercar con Ferrari e Lamborghini. Non a caso lo scorso anno è stata presentata la Yangwang U9, capace di raggiungere i 306 chilometri orari con propulsore elettrico. Al momento il modello è destinato solo agli acquirenti cinesi, ma con un prezzo di poco più di duecentomila euro si candida a essere un serio competitor nel settore delle luxury car.
Il countdown verso il 2035, data a partire dalla quale i motori endotermici non saranno più immatricolabili, è iniziato. E Stellantis e gli altri grandi marchi europei sono in grave ritardo rispetto alla pole position cinese.