Quello di Michieletto è un Rigoletto espressionista

L’opera è in scena al Teatro La Fenice di Venezia, stessa sede del debutto assoluto datato 11 marzo 1851, ed è piena di senso di colpa e alienazione che capovolgono il piano narrativo, riavvolgendo il nastro dalla pazzia senza luce di colui che un tempo divertiva la corte con i suoi lazzi

Respirare come dentro a un sacco di morte, l’aria satura e tesa, un incubo senza ritorno se non nel gorgo. L’atmosfera che Damiano Michieletto imprime alla sua versione di Rigoletto, in scena al Teatro La Fenice di Venezia, è figlia autentica della stagione del Covid: correva infatti l’autunno del 2021 quando le rappresentazioni dell’opera verdiana, tra le prime a essere programmate dopo la fase più acuta della pandemia, erano vincolate agli stretti limiti del distanziamento e delle mascherine. Chi era in sala ricorda le file alternate, la capienza ridotta all’osso, l’obbligo di essere “congiunti” per condividere lo stesso palco: era il teatro che a fatica provava ad andare avanti, navigando a vista e senza alcuna certezza per l’immediato futuro.

La messa in scena, nella stessa sede del debutto assoluto datato 11 marzo 1851, inconsciamente risente di quella maledizione: un termine che evoca sia il titolo originario del libretto di Francesco Maria Piave, sia i connessi concetti di colpa e alienazione che capovolgono il piano narrativo, riavvolgendo il nastro dalla pazzia senza luce di colui che un tempo divertiva la corte con i suoi lazzi. Il regista di Scorzè ambienta la rappresentazione entro il manicomio dove Rigoletto viene rinchiuso, un dormitorio freddo, immutabile, asettico dove le agnizioni avvengono allo specchio del lavandino: la scenografia di Paolo Fantin e le luci di Alessandro Carletti trovano spazio ai visual che scorrono l’infanzia di Gilda, la figlia del protagonista, tra film in bianco e nero e disegni d’infanzia, a loro volta presto anneriti.

Porte serrate ma brecce attraverso i muri, le maschere del coro uniformate al volto del Duca di Mantova o travisate da rapitori, il letto della ragazza sospeso nell’aria dopo il suo ratto: aleggia lo spettro del Coronavirus, con il suo portato di morte e di controllo, quindi la voglia di libertà fino al femminicidio. La stanza, dice Michieletto, è “uno spazio bianco, mentale, non realistico, come se ci si trovasse dentro la testa del protagonista”. Ed è là che tutto accade, fuori dall’azione scenica: la bravura generazionale di Luca Salsi, spesso a terra e mani al volto, rende umana e carnale la maschera, lontanissima dalla classica iconografia del buffone. Da servo a vindice nella miglior tradizione italiana, all’apice nel “Cortigiani, vil razza dannata”, il baritono parmigiano ha un degno contraltare nella performance squillante del tenore peruviano Iván Ayón Rivas, pure reduce dal primo cast di quasi quattro anni fa.

Ma soprattutto, per una volta ancora, è la visione espressionista di Michieletto a giocare un ruolo almeno pari a quello degli interpreti: non è più una sorpresa, se non per chi assiste per la prima volta a una sua regia. Dal dramma di Victor Hugo, il ponte con Shakespeare è relativamente breve: “Sì – dichiara – Rigoletto è un piccolo Re Lear, cioè un padre che desidera che la figlia lo ami e alla fine si trova in una tempesta, in cui impazzisce. Un uomo da solo in riva al fiume, che diventa folle di dolore con in braccio il cadavere della figlia, esattamente come Lear che stringe Cordelia”. E tutto trascende di molto i confini di un’opera lirica da due ore e mezza, le cui prossime repliche (domenica 23, martedì 25 e venerdì 28 febbraio) accompagnano idealmente alla conclusione del Carnevale, cioè del licet insanire.

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