Meloni e il Vietnam di Trump: spunti possibili

Pace che diventa resa, accordi farlocchi e parallelismi del Wsj. Le bacchettate che può dare in privato la premier italiana al presidente americano per spiegare perché una disfatta in Ucraina può far male non solo all’Europa ma agli Stati Uniti

Le bacchettate in pubblico sono difficili, in privato forse no, e non riguardano Zelensky: riguardano Trump. Chi pensa che Giorgia Meloni possa prendere una posizione pubblica contro Donald Trump su uno qualsiasi dei temi sui quali il presidente americano ha apertamente e deliberatamente sfidato l’Europa e dunque l’Italia è fuori strada. Giorgia Meloni – anche di fronte a un Trump che ci minaccia sui dazi, anche di fronte a un Trump che ci minaccia sulla Nato, anche di fronte a un Trump che si muove per umiliare l’Europa sul piano di pace con Putin sull’Ucraina – ha solo un’arma plausibile e possibile per provare a spendere il suo pacchetto di credibilità acquisito davanti agli occhi di Trump.

E quel pacchetto coincide con quello che la presidente del Consiglio italiano potrebbe dire a Trump lontano dai microfoni. Trump, lo sappiamo, con Putin ha un problema di carattere personale, nel senso che Trump ama Putin, lo apprezza, lo capisce, lo invidia, e in questo senso è particolarmente istruttiva un’intervista formidabile concessa qualche giorno fa dall’ex premier australiano, Malcolm Turnbull, in carica ai tempi del Trump I, che ha avuto modo di partecipare ad alcune riunioni in compagnia di Trump e Putin e vedendoli insieme non ha potuto fare a meno di notare, nel dialogo, nella postura, nella gestualità, il senso di ammirazione del presidente americano per quello russo (“Quando vedi Trump con Putin, come mi è capitato in alcune occasioni, è come il ragazzino di dodici anni che va al liceo e incontra il capitano della squadra di football”). Ma per ovviare anche a questo tema, che si aggiunge al disinteresse di Trump per l’Ucraina, al disprezzo di Trump per Zelensky, all’odio di Trump per l’Europa, vi è solo una soluzione possibile ed è quella di adottare nei colloqui con Trump una postura diversa, provando a mostrare al presidente americano non cosa rischia l’Europa a essere maltrattata dall’America (la difesa dei valori non negoziabili della democrazia liberale non è esattamente in cima all’agenda del presidente Trump) ma cosa ci perderebbe Trump in termini di reputazione personale nel contribuire a determinare una eventuale vittoria strategica di Vladimir Putin.

Qualche elemento utile per ragionare sulla traiettoria di Trump lo ha offerti l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale del presidente americano, John Bolton, che osservando le prime battute della trattativa fra Putin e Trump, pochi giorni fa, ha detto che “il presidente Trump si è di fatto arreso a Putin prima ancora che i negoziati fossero iniziati”, perché “le posizioni che il segretario alla Difesa Hegseth ha annunciato a Bruxelles costituiscono i termini di un accordo che avrebbe potuto essere scritto al Cremlino”. Lo stesso ha ribadito cinque giorni fa il senatore repubblicano del Mississippi Roger Wicker che è anche presidente del comitato che supervisiona il Pentagono, dicendo che il segretario alla Difesa statunitense Pete Hegseth ha commesso un “errore da principiante” quando ha affermato che un ritorno ai confini prebellici dell’Ucraina era “irrealistico” (“Tutti sanno… e le persone nell’Amministrazione sanno che non si dice prima del primo incontro cosa si è disposti a concordare e cosa no”).

Ieri, sul Wall Street Journal, quotidiano conservatore, sostenitore di Trump, l’ex speechwriter di George Bush, William McGurn, ha offerto qualche spunto di riflessione ulteriore che potrebbe essere utile all’interno di un’eventuale chiacchierata tra Meloni e Trump. Trump, dice McGurn, ha fatto campagna elettorale sostenendo di essere l’uomo giusto per negoziare un accordo che avrebbe posto fine alla carneficina in Ucraina. Ma se facesse un accordo fatto per essere violato, fatto per andare a rotoli, fatto per favorire e non frenare l’aggressività di Putin, per Trump sarebbe una macchia enorme sulla sua reputazione. In questi giorni, nei giorni in cui si prova a ragionare con anticipo sui tempi, forse troppo, su quello che sarà il destino dei negoziati di pace sull’Ucraina, si è paragonato il negoziato in essere a Monaco 1938 (quando Chamberlain & Co. mollarono i Sudeti a Hitler, sperando di calmarlo), si è paragonata la fase in corso agli accordi di Minsk del 2015 (vennero fatti dopo la conquista della Crimea, da parte di Putin, e furono accordi propedeutici all’invasione di otto anni dopo), si è paragonato il momento storico a Kabul (al modo osceno in cui gli americani nel 2021 abbandonarono rovinosamente l’Afghanistan lasciandolo ai talebani).



Ma in pochi avevano azzardato, come invece ha fatto McGurn, un paragone con un altro periodo storico speciale. Il 27 gennaio del 1973, potrebbe ricordare Meloni all’amico Trump alla prossima occasione, vennero firmati accordi di pace in Vietnam. Furono accordi imposti al presidente sudvietnamita Nguyen Van Thieu, condotti sostanzialmente alle sue spalle tra gli Stati Uniti e il Vietnam del nord. Nove mesi dopo la firma dell’accordo, che avvenne nell’ottobre del 1973, Kissinger e Le Duc Tho del Vietnam del nord ricevettero congiuntamente il premio Nobel per la Pace (anche se Tho lo rifiutò). Il 30 aprile 1975, i carri armati del Vietnam del nord entrarono a Saigon e il Vietnam del sud non esisteva più. Il giorno dopo Kissinger cercò di restituire il premio Nobel.

Il comitato per il Nobel lo respinse. Il ragionamento su quanto potrebbe essere pericoloso per l’Europa avere un Putin più forte – più forte in Europa, più legittimato a espandere nuovamente la sua sfera di influenza in nord Africa, più desideroso di tornare ad aiutare l’Iran a rafforzare la propria egemonia in medio oriente: speriamo ci pensino i sauditi a spiegare a Trump cosa vuol dire aiutare gli amici dell’Iran – è un argomento che potrebbe non far presa agli occhi di Trump. Provare a ragionare su cosa possa significare per un presidente che sogna di esser ricordato per la pace creare le condizioni per nuove guerre, come successo nel 1938 a Monaco, come successo nel 1973 con il Vietnam, come successo nel 2015 a Minsk, come successo nel 2021 a Kabul, potrebbe forse aiutare gli amici di Trump ad aprire gli occhi e a capire che anche per il proprio tornaconto personale rendere Putin Great Again significa umiliare non solo chi comanda in Europa ma anche chi comanda in America.

  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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