L’epica elegia dedicata al torero caduto, Ignacio Sánchez Mejías, celebra la sua morte come simbolo di un eroismo eterno e tragico. Quelle parole, scolpite nella memoria, continuano a risuonare attraverso i secoli, tra l’assenza di un corpo e la forza della creazione artistica
“Sui gradini salì Ignazio / con tutta la sua morte addosso. / Cercava l’alba / ma l’alba non era. / Cerca il suo dritto profilo / e il sogno lo disorienta. / Cercava il suo bel corpo / e trovò il suo sangue aperto. / Non ditemi di vederlo! / Non voglio sentir lo zampillo/ogni volta con meno forza:/questo getto che illumina/le gradinate e si rovescia / sopra il velluto e il cuoio / della folla assetata”.
Sono alcuni dei versi con cui Federico García Lorca, novant’anni fa, ancora giovane ma già vicino alla morte, non per predestinazione corporea ma per fato politico, cantava la morte avvenuta solo pochi mesi prima del torero Ignacio Sánchez Mejías. Questa insuperabile elegia, il Lamento, per il torero caduto nella periferica arena di Manzanares nell’agosto del 1934 uscì all’inizio del 1935. Il poeta sarebbe stato assassinato per mano dei nazionalisti spagnoli un anno dopo.
Al di là di chi fu Ignazio come torero e come iconica figura della Spagna, tema ormai per appassionati, ciò che conta e che attraverserà i secoli, se uomini ancora ci saranno, sono le parole di García Lorca che, nate dal dolore per la scomparsa dell’amico, si riversano nell’animo di chi riesce ad ascoltarle. Sono parole per tutti, possiedono la penetrante evidenza che solo un orecchio privato di tempo e di spirito non è in grado di apprezzare, di comprendere intimamente, di sentire vibrare con la forza della verità della creazione artistica assoluta. Parole che collegano García Lorca direttamente con i grandi lirici, i grandi cantori che, nella storia della civiltà, hanno dato voce alla Parola. Parole e Parola che sono la civiltà stessa. “Voglio che mi insegnino un canto come un fiume / ch’abbia dolci nebbie e profonde rive / per portare via il corpo d’Ignazio e che si perda / senz’ascoltare il doppio fiato dei tori”.
Questa elegia è lo sguardo di un poeta su un uomo dalle molte vite, un uomo “ricco di avventura”, di coraggio, di audacia, un uomo “cui risuona lo scheletro” e canta “con la bocca piena di sole e di sassi”. Un uomo che prende la vita d’assalto, attraversato da un “appetito di morte” che non è niente di diverso dalla percezione stessa dell’esistenza come disfarsi mentre si diventa se stessi. Un uomo di cui Garcia Lorca ricorda “la tristezza che ebbe la tua coraggiosa allegria”. Un uomo del tutto inattuale che i versi fissano nella dimensione altra e atemporale che è solamente propria della creazione artistica assoluta quando diviene sguardo nella verità. O meglio, della creazione artistica che genera la verità dandole vita e forma, mostrandocene la necessità.
Quello di García Lorca è un inno all’assenza mentre guarda un corpo bellissimo e ancora giovane ormai svuotato di ciò che lo aveva reso vivo “la morte l’ha coperto di pallidi zolfi / […] Ormai è finito. La pioggia entra nella sua bocca. / Il vento come pazzo il suo petto ha scavato”. C’è qui lo stupore tragico, impossibile e realissimo, del corpo presente e dell’anima assente, di un essere che era e che ora non è più. Ma questa assenza, che è ciò che vi è di più ovvio e naturale, visto che è ciò a cui da sempre siamo destinati, è anche ciò che è massimamente disumano. E la grandezza di Ignazio sta proprio nell’aver lottato contro questo principio naturale, così bene incarnato dalla potenza travolgente del toro e dalla lotta contro la forza brutale rappresentata e sublimata nella tauromachia. Il destino è identico per tutti, ma si è vivi e unici soltanto attraverso la lotta: il maledetto e meraviglioso qui e ora dell’atto eroico (solo il qui e ora è senza tempo, solo quell’attimo) di un corpo che poi improvvisamente e irrimediabilmente scompare nella luce meravigliosa di Spagna, nella bellezza perduta per sempre di quel momento, nell’eroismo del gesto che nell’istante stesso in cui tramonta diviene eterno attraverso la Parola più duratura persino del mare.
“Non voglio che gli copran la faccia con fazzoletti / perché s’abitui alla morte che porta. / Va’, Ignazio. Non sentire il caldo bramito. / Dormi, vola, riposa. Muore anche il mare!”.