Sanremo fatigue. Chi assiste al Festival ha la sensazione di essere qui da mesi

Clima pesante, ambiente asfittico. Cucina pessima, clima rigido. Al netto degli stati depressivi individuali, c’è voglia di farla finita in questo “villaggio” della Liguria che per una settimana si riempie di “scemi” da tutta Italia

Senza tanti giri di parole: metà della gente è qui a Sanremo per vedere se Fedez si butta dal cornicione, mentre l’altra metà sta o vorrebbe stare sul cornicione per buttarsi assieme a lui. Al netto degli stati depressivi individuali, Sanremo durante il Festival mette tristezza, e ogni volta che ci vengo capisco perché Tenco si è ammazzato proprio qui. Diceva Truman Capote che solo gli scemi del villaggio non pensano mai al suicidio; ma qui, in questo “villaggio” della Liguria che per una settimana si riempie di “scemi” da tutta Italia, è impossibile non pensare tutti quanti al suicidio almeno un po’. È la “Sanremo fatigue”, uno stato di angoscia e tristezza che ti prende appena arrivi nella “città dei fiori”.



Ti entra nelle ossa per non lasciarti più, come l’umidità di questi giorni della marmotta sanremese, in cui ti svegli ogni mattina e la giornata è uguale alla precedente così come alla successiva. C’è persino la pioggia qui in riviera, che sgocciola grigia da nuvole basse e senza spiragli. Perché questa giostra annuale, questa festa laica, questo nostro Super Bowl che unisce tutto il circo mediatico e anche di più, se visto da vicino invece che mettere allegria o trasmettere “good vibes” suscita solo una languida e decadente voglia di farla finita? Sarà perché le aspettative si scontrano sempre con la realtà, e nel caso di Sanremo le aspettative sono sempre altissime (i più umili puntano a fare sesso con Elodie o Achille Lauro) mentre la realtà è miserabile: ristoranti cattivi (Sanremo è l’unico posto in Italia dove si mangia male), alberghi inadeguati, brandizzazione esasperata di ogni vicolo, volti mostruosi ovunque, e già è tanto se pomici ubriaco con una cameriera – ubriaca a sua volta.

All’ora dell’aperitivo, per chi ha un po’ di tregua fra le dirette tv e i pezzi da consegnare al giornale per l’indomani, ci si vede fra colleghi delle radio o della stampa giù al porto, in qualche bar; e magari ci si organizza per la cena o per vedere il Festival assieme – non va a nessuno, ma dobbiamo tutti. E lì, attorno a un tavolino, fra un bicchiere di bollicine o un Americano, ci guardiamo tutti negli occhi cerchiati e ci diciamo quanto siamo stanchi, quanto non ne possiamo più, che vogliamo venire via da Sanremo. Ma questo già da domenica sera, il giorno del nostro arrivo nell’”Ariston Valley”.

Il picco di questo stato d’animo viene raggiunto proprio in queste ore, quando il Festival è alla sua prima o seconda serata e alla finale mancano ancora tre giorni, non siamo neanche a metà della manifestazione canora ma a te sembra di stare qui da mesi, forse anni, e hai più notizie della mamma di Cristicchi che della tua. Da Tenco in poi, l’ombra del suicidio ha sempre aleggiato sul Festival; ma dopo la tragedia del ’67, la storia si è ripetuta come farsa nel 1995, quando il disoccupato Pino Pagano minacciò di gettarsi in diretta dalla balconata del teatro Ariston prima di essere tratto in salvo da Pippo Baudo. Nell’ultimo anno però lo spettro è tornato ad aggirarsi per Sanremo in tutta la sua cupezza, la scorsa edizione con Sangiovanni (in evidente disagio psichico, e che infatti al termine del Festival ha annunciato una pausa dalle scene per preservare la propria salute mentale) e quest’anno con Fedez, che – dopo aver già tentato il suicidio qui a dicembre, a detta di Corona – porta sul palco una canzone sulla sua depressione senza però averla superata e nemmeno elaborata, solo esibita. E noi costretti a essere spettatori a disagio del disagio altrui, indecisi fra il cinismo o l’emulazione.

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