Creare un reato nuovo per ogni allarme sociale è un male antico

Già Montesquieu, davanti all’inasprimento delle pene, scriveva che “l’immaginazione si abitua a quella grave pena, come si era abituata alla più lieve, e venendo meno il timore per questa, si è costretti in breve a stabilire l’altra in tutti i casi”

Quando sento parlare di panpenalismo penso sempre, per pura associazione sonora, all’omino di panpepato. E in effetti servirebbe la scaltrezza del biscottin fuggiasco per sottrarsi a tutti i forni carcerari che ogni giorno il governo spalanca nell’illusione di rispondere alle emergenze più varie. Nella mia ignoranza, credevo che questa rapidità nel creare un reato nuovo per ogni allarme sociale fosse un male contemporaneo, o quanto meno aggravato dalla contemporaneità; che insomma fosse tra le tante storture di un mondo in cui la comunicazione istantanea richiede risposte istantanee, per quanto puramente simboliche o addirittura controproducenti. E invece, leggendo una raccolta di saggi di Dario Ippolito sull’illuminismo penale, Diritti e potere (Aracne 2012), mi imbatto in questo passo di Montesquieu, dal libro sesto dell’Esprit des lois: “In uno Stato si fa sentire qualche inconveniente: un governo violento vuole correggerlo di colpo; e invece di pensare di mettere in esecuzione le antiche leggi, si istituisce una pena crudele che arresta subito il male. Ma in tal modo si logora il congegno del governo; l’immaginazione si abitua a quella grave pena, come si era abituata alla più lieve, e venendo meno il timore per questa, si è costretti in breve a stabilire l’altra in tutti i casi”. Sono quindi almeno due secoli e mezzo che il nostro omino di panpepato corre per non farsi acchiappare e sbattere nel forno. Ma c’è comunque una certa ironia nel fatto che sia costretto a correre più forte sotto la sferza di un governo che ha un ministro della giustizia sedicente garantista.

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