“Inondare la zona”, ovvero il piano informativo e politico, di qualsiasi cosa. La frase con cui è possibile risolvere il puzzle del trumpismo l’ha detta l’ex capo stratega della Casa Bianca che oggi gioca a fare l’anti-Elon Musk
“Flood the zone with shit”. Se c’è una singola frase con cui cercare di risolvere il puzzle del trumpismo, e in particolare della seconda amministrazione di Donald Trump, è questa. A dirla fu Steve Bannon, già imprenditore, capo del sito d’estrema destra Breitbart e consigliere di Trump nel 2016. Oggi Bannon gioca a fare l’anti-Elon Musk ma per anni le sue parole hanno guidato e ispirato le azioni della destra globale – e forse, al di là delle antipatie personali, di Musk stesso.
La frase risale al 2018, ma Bannon l’ha ripetuta più volte. Alla trasmissione “Frontline” della PBS, per esempio, disse: “Il partito di opposizione sono i media e i media, perché sono scemi e pigri, possono solo concentrarsi su una cosa alla volta. Noi dobbiamo solo inondare la zona. Ogni giorno li colpiamo con tre cose. Abboccheranno a una e riusciremo a fare tutto quello che dobbiamo. Bang bang bang. Non riusciranno mai, mai, a riprendersi. Ma dobbiamo essere velocissimi”.
Flood the zone with shit, quindi: inondare la “zona” (il piano informativo e politico) di roba, non proprio “merda” ma cose di qualunque tipo. Dalle polemiche politiche alle battaglie culturali, dagli attacchi alle persone trans ai sogni di invadere Groenlandia, Panama e, perché no, la Striscia di Gaza, mentre il figlio del presidente – Don Jr. – si filma a caccia di anatre protette nella laguna veneta e, nel background, da bravo hacker, Musk e i suoi programmatori radicalizzati provano a “bucare” l’infrastruttura digitale del governo statunitense. Sembra caso, lo è, ma è soprattutto un’inondazione. Più o meno controllata, alla olandese. L’insegnamento di Bannon è ormai stato assorbito dalla destra trumpiana, che ha imparato a disinnescare il meccanismo dell’informazione “vecchio stile”, che procede a passi, una cosa alla volta, e quindi è facilmente distraibile dai continui scandali (e quelli progettati ad hoc). Nella visione di Bannon, i media sono mono mentre il trumpismo è stereo, anzi Dolby Surround. Procede per moltiplicazione.
È interessante ricordare che la dichiarazione da cui siamo partiti risale al 2018, epoca che a livello mediatico risulta ormai lontana. Uscivamo dagli sconvolgenti fatti del 2016, Brexit e Trump, dalle polemiche sui social e Facebook in primis; oggi invece parliamo di “elezione dei podcast”, Joe Rogan, TikTok, e i canali all news che dominarono il primo Trump hanno un’influenza minore. Anche Twitter, social prediletto di Trump non è più lo stesso. Letteralmente: ha un altro nome, X, e, soprattuto, un altro padrone, Musk, che ne indirizza e condiziona il discorso. O, per dirla con Bannon, la “zona”.
Il Media Manipulation Casebook è un progetto della Harvard Kennedy School che si occupa proprio di manipolazione dei media, e ha ricostruito questo genere di tattiche informative – che non sono esattamente nate con Bannon e Trump. La chiamano Distributed amplification, amplificazione distribuita, e viene usata per “indirizzare esplicitamente o implicitamente i partecipanti a diffondere rapidamente i materiali della campagna, che possono includere propaganda e disinformazione”. Questa strategia prevede l’utilizzo di più piattaforme possibile, sia per raggiungere un pubblico più vasto, sia per essere meno esposti a eventuali tentativi di moderazione da parte dei siti stessi. Un rischio sempre meno frequente, quest’ultimo, visto che Meta ha deciso di seguire l’esempio di X, smettere la moderazione dei contenuti e affidarsi alle salvifiche Community Notes. L’obiettivo ultimo della amplificazione distribuita è “sopraffare l’ecosistema informativo con una narrazione o messaggio specifico”. L’esempio citato è quello di Plandemic, discusso e controverso documentario pieno di fake news sul Covid-19 e i vaccini, che si diffuse su Facebook nei mesi più caldi della pandemia seguendo proprio questa strategia “diffusa”.
Secondo la ricercatrice Margaret Roberts, però, l’inondazione della “zona” viene ancora da più lontano. Dalla Cina, dove il governo utilizza la censura per controllare il discorso online e offline, ma si avvale anche di altre strategie: paura, frizione e inondazione, appunto. La prima è facile da capire, prevede una serie di ripercussioni e conseguenze per chi scrive e posta certi contenuti; la seconda è più logistica e prevede di nascondere informazioni dietro paywall o siti poco accessibili. E poi il “flooding”, appunto, l’alluvione di contenuti d’ogni tipo, da far scattare nei momenti opportuni.