Confronto geopolitico con la Cina. Contrasto all’immigrazione con il Messico e il Canada. Partita economica con l’Europa. Perché con le tre simultanee battaglie commerciali Trump persegue obiettivi contraddittori e inconciliabili
Sul fatto che i dazi siano dannosi per chi li subisce, ma soprattutto controproducenti per chi li impone, e pertanto “stupidi” (secondo la definizione di Carlo M. Cipolla) ci sono pochi dubbi. La letteratura scientifica è ampia e la storia lo dimostra. Ci sono, però, casi in cui i dazi e le guerre commerciali sono uno strumento per perseguire – anche sopportando un costo economico – altri obiettivi politici. E in questo senso, si suppone, li usa Donald Trump, sebbene abbia dichiarato di amare le “tariffe” in senso assoluto.
Il problema, in questa guerra commerciale appena iniziata e interrotta da varie tregue, è che si fatica a vedere la strategia. Al momento, vedendo i dazi annunciati e le motivazioni alla base, Trump sta perseguendo tre obiettivi. I dazi contro la Cina servono per colpire l’avversario – se non il nemico – principale nella competizione globale: si tratta, pertanto, di un obiettivo geopolitico.
I dazi introdotti, e poi sospesi, contro il Messico e il Canada puntano invece a ottenere un maggiore impegno da parte dei due grandi vicini nel contrasto all’immigrazione clandestina e al traffico di droga (fentanyl): si tratta, pertanto, di un obiettivo di politica interna.
I dazi annunciati nei confronti dell’Unione europea, invece, corrispondono alla richiesta di un riequilibrio del deficit commerciale statunitense e di una maggiore compartecipazione da parte del Vecchio continente alle spese militari della Nato: si tratta, pertanto, di un obiettivo più strettamente economico.
Senza voler entrare nel dettaglio di ciascuna motivazione, e a prescindere dai risultati parziali che Trump sta ottenendo, ciò che appare di difficile comprensione è come intenda condurre una guerra commerciale su tre fronti. Non semplicemente perché comporterebbe un enorme dispendio di risorse economiche: il Messico rappresenta il 15,6% delle importazioni Usa, l’Unione europea il 13,7%, la Cina il 13,5%, il Canada il 12,6% e tutti insieme oltre il 55%. E non soltanto perché farebbe saltare altri obiettivi economici su cui Trump ha vinto le elezioni, come la riduzione dell’inflazione. Ma perché sono tre obiettivi inconciliabili.
Non ha molto senso lanciare una sfida geopolitica alla Cina e allo stesso tempo attaccare i propri alleati più vicini per ragioni di politica interna, non è possibile perseguire un “decoupling” dall’economia cinese e allo stesso tempo la riduzione del deficit commerciale con tutti gli altri paesi con cui si ha un forte interscambio. Se si intende perseguire per ragioni geopolitiche una separazione economica da Pechino, per accorciare le forniture e le catene globali del valore soprattutto in settori critici, allora bisogna rafforzare le alleanze e le aree di libero scambio con i vicini, come Messico e Canada, per fare “friendshoring”, ovvero spostare gli approvvigionamenti in paesi amici riducendo i rischi geopolitici.
Ma, naturalmente, questo obiettivo entra in conflitto con quelli di politica interna se il contrasto all’immigrazione clandestina viene perseguito imponendo tariffe elevatissime a quegli stessi paesi amici come Messico e Canada. Il risultato, infatti, è che i governi di questi paesi – sia quello della presidente messicana (di sinistra) Claudia Sheinbaum, sia quello canadese senza distinzioni tra il liberale dimissionario Justin Trudeau e il conservatore favorito alle prossime elezioni Pierre Poilievre – hanno capito che avere un’economia troppo dipendente da quella statunitense è un rischio geopolitico. Quindi cercheranno di diversificare i partner commerciali. E di questo potrebbe approfittarne proprio la Cina, soprattutto con governi politicamente più affini come quello messicano. Insomma, il “decoupling” rischia di avvenire al contrario.
Analogamente, se l’obiettivo della Casa Bianca è competere con la Cina e ridurre il deficit commerciale con Pechino – tralasciando qualsiasi considerazione sull’efficacia dei dazi – bisogna in una certa misura accettare che quel disavanzo si ampli con altri paesi, che peraltro sono alleati, come quelli dell’Unione europea. E’ come se Trump guardasse ogni questione in un’ottica bilaterale, perdendo però la visione d’insieme. Il paradosso è che se pure ogni conflitto si risolvesse in maniera vittoriosa, comunque Trump non riuscirebbe a perseguire tutti gli obiettivi contemporaneamente, perché sono inconciliabili.
Per giunta, dazi così ampi e diffusi hanno come conseguenza, oltre a un aumento dell’inflazione, un apprezzamento del dollaro, che a sua volta rende più economiche per gli americani le importazioni (deficit commerciale) incluse le droghe illegali (fentanyl).
Trump dovrebbe quantomeno avere delle priorità, ma si fatica a vedere quali siano. Nel suo primo mandato era tutto più chiaro. E’ vero che i dazi furono rivolti anche all’Unione europea, ma l’obiettivo principale era Pechino: verso la fine del 2019, l’Amministrazione Trump aveva imposto dazi su circa 350 miliardi di dollari di importazioni dalla Cina. Questa volta non solo i dazi colpiscono beni importati per 1.400 miliardi di dollari, oltre il triplo rispetto primo mandato, ma lo fanno senza fare alcuna distinzione tra amici e nemici. Anzi gli alleati come Messico e Canada sono stati colpiti in misura notevolmente maggiore (dazi aggiuntivi del 25%) rispetto al nemico cinese (10%).
Naturalmente è presto per dare un giudizio sull’azione di Trump, che pare incline a tornare indietro in cambio di qualche concessione. Ma bisognerà anche stare attenti a giudicare la sua tattica minacciosa dai risultati parziali e immediati, perché è sul medio-lungo termine che andrà valutata la sua strategia. Alla fine i dazi, applicati o minacciati a chiunque per qualsiasi obiettivo economico e politico, avranno reso gli americani più ricchi e gli Stati Uniti più influenti e rispettati nel mondo?