Il programma “dual career” della Cattolica conta ormai decine di studenti-atleti, da ogni genere di disciplina sportiva. Tra incastri e impegni, fare fatica per raggiungere risultati diventa un punto di forza. La storia di Cristina Chirichella, dalla pallavolo alla laurea
Uno degli esami decisivi per la sua laurea triennale, Cristina Chirichella lo ha fatto poche ore prima del quarto di finale degli Europei del 2021, contro la Russia. “Al mattino siamo riusciti a organizzare un’interrogazione a distanza, con un testimone presente: ero all’estero, ma ciò non mi ha impedito di studiare, dare l’esame e fare un passo in più verso la laurea”. Si fa così, l’università, quando si pratica sport a livelli altissimi: incastri, tempi risicati per lo studio, dedizione ai libri quando è necessario, sacrifici. Ma la pallavolista dell’Imoco Conegliano è una delle storie più significative di qualcuno che ce l’ha fatta: lo scorso autunno ha conseguito anche la laurea specialistica in scienze motorie all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, raggiungendo a 30 anni un titolo che indubbiamente potrà esserle utile un domani, quando la sua carriera da giocatrice andrà a finire.
La strada che Chirichella ha seguito ha un nome, dual career, il programma sorto nel 2012 per supportare atleti e atlete che devono conciliare agonismo e studi. Una via che ormai è ben diffusa in tante università d’Italia, intrapresa da molti che temono il rischio di sacrificare in nome dello sport una adeguata formazione accademica: “All’inizio volevo fare fisioterapia”, spiega Chirichella, “ma richiedeva una frequenza altissima, impossibile per me. Così la scelta è caduta su Scienze motorie: sono stati anni molto soddisfacenti per la mia attività pallavolistica, ma volevo investire anche da qualche altra parte, costruire un mio futuro. Certo, è stata dura: finivo gli allenamenti e aprivo i libri. Paradossalmente è stato più facile studiare nei periodi più intensi di gare: staccavo la testa volentieri”. Così in cinque anni di studio la pallavolista napoletana si è laureata (con una tesi sugli infortuni alla spalla nel volley): “Ho dato tutti gli esami a colpo sicuro, e sono riuscita anche a seguire alcune lezioni e laboratori, soprattutto alla specialistica”.
Ad aiutarla, il supporto costante di una tutor dell’università: “Dovrei farle una statua! Con lei sin da subito ci siamo incontrate per individuare quali sarebbero state le problematiche che avremmo trovato nel corso dell’anno, i periodi più intensi, capire come comunicare velocemente con i professori, programmare esami fuori appello. Serve grande responsabilità per iniziare: non è semplice, anche perché ci sono momenti in cui non ti andrebbe di studiare, ma bisogna farlo. E sai che occorre prendere questa esperienza come viene, con i suoi tempi e risultati”. Chirichella conta decine di colleghe che studiano, “ma molte seguono le università telematiche, per comodità. Io invece volevo un’università fisica, anche da frequentare se possibile. Scienze motorie è certo una facoltà molto scelta tra gli sportivi, ma non c’è solo questa: qualcuno fa psicologia, o scienze della formazione o dell’educazione. Qualche pallavolista ha scelto di fare medicina, dovendo poi scegliere e mollando con lo sport”.
Già, il rischio drop out è sempre grande. Chiara D’Angelo, professoressa della facoltà di psicologia e coordinatrice scientifica del programma dual career dell’Università Cattolica, lo ha molto chiaro, e dice che la forza della proposta dell’ateneo milanese sta proprio qui: “Non si tratta solo di offrire flessibilità con esami e studio, ma prima di tutto di lavorare con tutor che sono psicologi dello sport. Dietro all’incastro di esami e competizioni ci sono volti e storie, perché i percorsi di una carriera agonistica non sono mai uguali uno all’altro. Le esigenze di massima sono simili, ma poi ci sono infortuni, scelte personali, abbandoni, stage, momenti di transizione e scelta. E i tutor, così, possono accompagnare”.
Sport e studio non possono solo correre paralleli, “ma devono dialogare e cercare strade sostenibili”, continua D’Angelo. In Italia, spiega, scuola e sport non comunicano troppo tra loro, e in età adolescenziale i punti di incontro sono gli atleti stessi, le famiglie e loro scelte. “Fino alla scuola dell’obbligo sono alcuni club e specialisti a mantenere vivo il bisogno che gli sportivi non perdano di vista gli studi. E il messaggio non deve essere: “Arriviamo al diploma”. Serve, invece, una strada seria, per pensare con credibilità al domani degli atleti. Solo così questi sportivi possono arrivare all’università e pensare al loro futuro”.
L’Università Cattolica è partita nel 2018 a fare dual career, e ora conta decine di studenti coinvolti, da ogni genere di sport: pugilato, pallanuoto, scherma, taekwondo, ginnastica ritmica, atletica, tennis… Sono ragazzi che si allenano sodo, con obbiettivi altissimi: puntano a campionati mondiali e Olimpiadi, spendono ore e ore ogni giorno in palestra o sui campi. Ma sono pure straordinariamente realisti sulle possibilità professionali che lo sport può dargli. “E la gran parte di questi studenti-atleti non ha dalla sua la notorietà. La loro paura è quella di arrivare tardi al mondo del lavoro, per questo qualcuno, purtroppo, interrompe prima con lo sport per iniziare a lavorare”. Il supporto psicologico che l’università offre viaggia in questa direzione: “Negli ultimi 2-3 anni abbiamo cercato di aiutare questi sportivi a rendere visibili per sé e per il lavoro le competenze che sviluppano attraverso la dual career, che poi sono molto richieste nel mondo del lavoro: flessibilità, saper reggere un grande stress, essere in grado di dare priorità. Sono tutte carte che hanno già in mano, vanno rese visibili a sé e al mondo del lavoro”. D’altra parte, dice la docente, la fatica che fanno molti atleti-studenti è quella di accontentarsi: “Hanno obiettivi di performance molto alti, anche per gli esami!”.
Ma è proprio su questo che bisogna investire: far diventare adattamento e dedizione un punto di forza. “La tenuta che questi studenti hanno di fronte alla fatica o agli impegni è grande: va riconosciuto che chi fa sport, rispetto a molti coetanei, ha spesso una marcia in più in università. Lo sport allena una competenza, anzitutto: fare fatica e impegnarti per raggiungere risultati. Questa diventa la loro arma in più”.